XXIX Congresso Nazionale di Diritto canonico

L’incapacità di assumere gli oneri essenziali del matrimonio. Interpretazione ed ambito di applicazione del can. 1095, n.3

Tavola rotonda: Gli elementi di prova e la loro valutazione clinica e giuridica

 

Giudice e perito a colloquio*

José T. Martín de Agar

Pontificio Ateneo della Santa Croce

1. Introduzione - 2. Tema e schema: impostazione del dialogo giudice-perito - 3. Il come: lo svolgimento del dialogo - 4. I miei suggerimenti - 5. La valutazione della perizia - 6. Conclusioni.

 

1. Introduzione

Benché il titolo della nostra tavola rotonda consenta di prendere in considerazione qualsiasi tipo di prova, la tematica specifica dell’intero Congresso che ci ha occupato in questi giorni, unita alla logica limitatezza del tempo a disposizione, mi consigliano di centrare il mio contributo sul tema della perizia riguardante l’incapacità consensuale e più precisamente il dialogo che in proposito si instaura tra il giudice e il perito.

Molto si è invero scritto sul tema, e qui non tenterò nemmeno di fare una presentazione complessiva della problematicità di questo dialogo, di cui si sono lamentate un’eccessiva sudditanza dei giudici “nei confronti dell’erudizione ostentata in molte perizie”[1], ma anche un’ingiustificata prevenzione riguardo all’operato del perito, insistendo nel sottolineare quali siano i limiti della sua competenza, del suo ruolo processuale ed anche il fatto che è al giudice che spetta valutare liberamente la perizia confrontandola con gli altri elementi di prova risultanti negli atti.

Alle volte però si ha la sensazione che i distinguo debbano riguardare soltanto i risultati peritali, e più esattamente le conclusioni da essi deducibili in rapporto alla decisione sulla capacità o meno del soggetto al matrimonio, quando invece a me sembra che l’assunzione del proprio ruolo e la posizione da parte di ciascuno deve essere presente fin dal momento in cui si considera necessaria la perizia e ci si accinge a impostarla.

Al di là delle polemiche, mi sembra che punto nodale della questione è e rimane il come rendere sinergico il colloquio giudice-perito, in vista di una sentenza giusta; stabilire il modo in cui il perito deve adempiere il suo specifico ruolo, affinché esso risulti utile per l’indagine istruttoria: descrivere cioè lo stato psichico del soggetto definito incapace, in maniera tale che il giudice possa più agevolmente arrivare ad una conclusione vera sulla sua idoneità a contrarre.

2. Tema e schema: impostazione del dialogo giudice-perito

La tematica è contemporaneamente sostanziale e processuale; senza pretendere di esaurire questi aspetti, vorrei esprimere qualche opinione a riguardo:

    1.- La sostanza del dialogo richiama necessariamente il c. 1095 il quale, dice Viladrich, “si riferisce alle malattie mentali e ai disturbi psichici, regolando i casi nei quali tali fattispecie, così diverse, costituiscono una incapacità al consenso che è causa, nel diritto, della nullità del matrimonio”[2].

Ciò significa -come si è autorevolmente ripetuto[3]- che un’incapacità al matrimonio è soltanto ravvisabile come conseguenza di una anomalia in atto al momento della celebrazione, la cui esistenza, natura e influsso richiede (di solito) la perizia psichiatrica. Non mi sembra quindi ammissibile la semplice perizia psicologica tesa a descrivere il carattere, il temperamento, i tratti psicologici del soggetto (anche in chiave evolutiva, ambientale oppure educativa), alla ricerca dei punti deboli, carenze, squilibri che possano servire di base ad una incapacitas[4].

Il riferimento poi del c. 1680 alla “malattia mentale”, con il relativo obbligo di perizia, sembra includere tutte le ipotesi comprese nel c. 1095, nel senso che l’incapacità a contrarre non corrisponde a uno stato di normalità della persona, bensì ad una alterazione, infermità, disturbo o anomalia delle sue facoltà spirituali “di carattere più o meno permanente e patologico”[5], fatto questo che deve essere accertato mediante un’indagine medica nisi inutilis evidenter appareat.

    2.- Sull’aspetto processuale vorrei soltanto ricordare qui che la perizia è legata al tema della ricerca della verità, ma anche a quello dell’interpretazione giuridica dei fatti, che spetta al giudice[6].

La perizia è il mezzo di prova con il quale, tramite le specifiche conoscenze scientifiche, artistiche o tecniche del perito, si accerta l’esistenza di un fatto, le sue cause, la sua natura, il suo valore o effetti[7], impossibili da verificare e valutare con le comuni conoscenze e percezioni.

Come per ogni mezzo di prova, si tratta di stabilire in maniera certa determinati fatti collegati all’oggetto del processo, questa volta però mediante un esperto.

Nel caso nostro con la perizia si tratta di accertare e valutare direttamente, non l’incapacità consensuale del soggetto in alcuna delle tre fattispecie giuridiche previste dal legislatore, e nemmeno se un certo dato psicologico rientra oppure no in una di tali ipotesi legali, bensì il disturbo o anomalia psichica che ne sarebbe l’origine, la cui esistenza e portata non possono essere giuridicamente acquisite se non tramite l’indagine e la spiegazione di esperti[8].

La perizia è dunque un’indagine tecnica specifica mirante alle finalità del processo, non è una diagnosi qualsiasi, né può essere sostituita (in via ordinaria almeno) da un altro referto psicopatologico operante in atti, che invece sarà utile per la realizzazione della perizia stessa.

Schematicamente il dialogo giudice-perito si svolge sul tipo domanda e risposta, e ciò comporta qualcosa di ovvio ma non per questo scontato: che la risposta dipende in buona parte dalla domanda. Perciò bisogna riconoscere che talvolta la causa di eventuali insufficienze della perizia si trova a monte della medesima.

Definire chiaramente ciò che si chiede al perito spetta al giudice istruttore con l’intervento delle parti (c. 1577 § 1). Quindi i risultati della perizia, e il valore che ad essi si potrà attribuire per la decisione, dipendono in grande misura dall’impostazione che il giudice fa della perizia.

Per la corretta impostazione del colloquio tra giudice e perito ha inoltre grande importanza la serietà e profondità con cui l’istruttore conduce l’intera indagine: giacché l’analisi periziale deve comprendere anche gli atti di causa (c. 1577 § 2), essi devono fornire al perito elementi il più possibile abbondanti, determinati e certi[9]. Occorre più che mai che il giudice istruttore, di fronte a valutazioni, apprezzamenti o impressioni dei testi sul temperamento o sulla condotta del periziando, indaghi su quali fatti precisi essi siano fondati e faccia presenti eventuali contraddizioni o discordanze, in modo che il perito possa agevolmente cogliere il grado di fondatezza delle asserzioni. A proposito si possono richiamare qui i cc. 1560 § 2 e 1570[10].

3. Il come: lo svolgimento del dialogo

Si è insistito non poco sulla necessità di distinguere nettamente le posizioni e i ruoli precisi del giudice e del perito[11]. È questo un punto di partenza chiaro, anche perché ogni confronto richiede parti e posizioni differenti. Lo stesso processo, in quanto espressione emblematica dell’essenziale dialogicità del diritto, richiede innanzitutto la definizione delle parti.

Non è semplice distinguere già sulla carta il ruolo e la competenza del perito da quelli del giudice, anche se il linguaggio ci consente di fare delle sottili disquisizioni. Si può certo stabilire la diversità di ruoli partendo dalla differenza tra fatto psicologico o disturbo (che è l’oggetto diretto della prova) e incapacità giuridica da esso derivante, incapacità che a sua volta determina la nullità. Ma anche allora bisogna ammettere che il linguaggio, chiaro e utile nei concetti, diventa ambiguo se si pensa all’applicazione pratica.

È, infatti teoricamente chiaro che “appartiene ai periti pronunciarsi sull’infermità, la guaribilità di essa, gli effetti, i gradi, l’influsso sul consenso; ma appartiene al giudice valutare la perizia alla luce degli atti”[12]. Come è pure chiaro che la perizia dev’essere circoscritta “all’ambito specifico di competenza del perito”, nel nostro caso “alla qualificazione dello stato psichico del soggetto (...) il perito è legittimato ad esprimersi circa una diagnosi sul peritato, circa la gravità del disturbo eventuale, circa l’inizio e la fine di esso o la sua valutazione prognostica, circa gli effetti sul periziando del disturbo medesimo, non già però a trarne deduzioni di carattere giuridico”; ma tocca al giudice stimare se una data situazione psichica “abbia intaccato in modo sostanziale intelligenza e/o volontà del soggetto”[13]; stabilire in casu il nesso tra malattia o turbe psichiche riscontrate e le fattispecie legali di incapacità, giudicare cioè se i fatti descritti dal perito sono stati causa di incapacità giuridica; tenendo sempre conto dell’insieme degli elementi di prova[14].

Ma il problema è proprio il passaggio dal clinico al giuridico, e anche a questo deve contribuire la perizia, senza che a ciò basti, a mio parere, la teorica ma in pratica inafferrabile distinzione tra influsso del disturbo sulle facoltà spirituali del coniuge (che spetta al perito), e influsso sulla capacità giuridica (appannaggio del giudice) poiché in realtà si equivalgono[15].

Per fare ciò, le distinzioni di ruoli e campi, di posizione e di competenza non bastano: c’è anche bisogno di punti di incontro, di un terreno comune, di almeno una linea di frontiera condivisa e di un linguaggio univoco, cioè di collegamenti tematici e di comunicazione, senza i quali il dialogo non sarebbe altro che una concatenazione di monologhi.

Se per ipotesi la perizia rimane nel campo strettamente diagnostico (descrive soltanto il disturbo e la sua gravità come tale), corre il rischio di non essere utile per il giurista, a meno che questo non sia così tanto esperto in psicopatologia, da potere dedurre da solo le conseguenze giuridiche di un referto periziale che non faccia per nulla cenno alla capacità nuziale del paziente. Ciò può accadere in pochi casi, nei quali allora forse non c’era neppure bisogno del perito.

Se invece il perito sconfina dal suo campo ed esprime in qualche modo le conseguenze giuridiche del disturbo da lui ravvisato (se per esempio dice: il disturbo del paziente era tale da impedirgli di adempiere gli obblighi coniugali), sembra che assuma un compito che non gli spetta erigendosi a giudice; il che, forse, potrebbe fare ma soltanto in casi molto chiari.

Difatti il c. 1579 § 2 chiede al giudice di esprimere quali argomenti lo hanno indotto a seguire o respingere le conclusioni del perito: ora se queste conclusioni rimangono strettamente tecniche, il giudice ne potrà fare uso (nella misura in cui sappia interpretarle) ma non si può dire che le ammette o le respinge. Ad es. se il perito afferma che il peritato soffre di una certa malattia, il giudice non deve dire se veramente ci crede o meno, o se la malattia è invece un’altra, e nemmeno se è convinto che essa sia guaribile, o se è clinicamente grave: “il giudice non può sindacare direttamente il merito della diagnosi”[16].

Tuttavia, come ho detto prima, la perizia non è una indagine o un rapporto tecnico qualsiasi: è una diagnosi finalizzata ad accertare e valutare la verità processuale, quindi legata al chiarimento dell’oggetto del processo[17]. Giudice e perito non osservano realtà diverse, ma la stessa realtà matrimoniale in prospettive differenti, e in vista di un obiettivo comune; ciò non toglie che sia legittimo parlare di realtà psicologiche e di realtà giuridiche per indicare la diversità di prospettiva scientifica.

Il problema per il giudice è qualificare una determinata realtà in termini di capacità matrimoniale, dovendosi servire all’uopo della specifica conoscenza del perito, che qualifica la medesima realtà in termini psichiatrici. È proprio su questo problema che si deve impostare il dialogo tra giudice e perito, senza che sia sufficiente che ciascuno rimanga come isolato nel proprio terreno di competenza.

4. I miei suggerimenti

A questo punto vorrei avanzare qualche proposta che possa favorire il colloquio tra perito e giudice, affinché questo possa tradurre in categorie giuridiche le manifestazioni e le conseguenze di una data anomalia psichica peritalmente accertata:

a) riguardo al terreno d’incontro, ci devono essere conoscenze minime reciproche; il giudice deve sapere qualcosa di psicopatologia e il perito deve sapere qualcosa su come la Chiesa intende il matrimonio e più precisamente le incapacità a consentire[18]. Così si può stabilire un dialogo cercando di rimanere ciascuno nel proprio ambito, ma gettando i ponti per la traduzione dei fatti dal clinico al giuridico: il giudice cercherà di chiedere al perito ciò che costui gli può dare in ordine alla decisione -non altro- e il perito cercherà di rispondere secondo la sua scienza, ma sapendo cosa serve al giudice riguardo essa.

b) In quel che tocca il linguaggio mi pare assai importante -ed è stato autorevolmente rilevato- capire subito se giudice e perito condividono o meno una visione cristiana dell’uomo: delle sue facoltà (specie della libertà), dei suoi limiti, della vita morale, della trascendenza[19]. È da lodare in questo senso la consuetudine di certi periti che nella loro relazione premettono con chiarezza la scuola, o l’indirizzo psichiatrico secondo i quali hanno impostato la loro opera; ciò servirà al giudice come criterio importante per la valutazione della perizia. D’altro canto, la diversità di orientamenti e metodi rende consigliabile il ricorso a più periti, per lo meno nelle cause più complesse[20].

c) Ma ancora, e senza rinunciare ad un livello di dialogo squisitamente tecnico, mi sembra che esso si possa anche instaurare con profitto sulla base del linguaggio corrente e del senso comune. Pensiamo a come il medico descrive al paziente (o ad un suo parente) la malattia che ha e le cure a cui si deve sottoporre.

Come ho detto, ciò non toglie che si debba fare una diagnosi tecnica; è proprio a partire da essa che il perito potrebbe cercare di descrivere la sostanza, la gravità, l’origine temporale e le conseguenze pratiche del disturbo in termini di vita corrente, nel suo insieme e anche specificamente nella loro proiezione sulla vita coniugale[21].

Spetta al giudice cercare di porre al perito delle domande in questo senso; qui appare quanto mai utile la possibilità prevista dal c. 1578 § 3, che tante volte direi diventa obbligata, di convocare il perito, “d’ufficio o anche a richiesta di parte, in quanto non vi sono in merito limitazioni”[22], allo scopo di arricchire la perizia presentata con ulteriori chiarimenti e spiegazioni più aderenti al caso specifico. È più che logico che dopo che il perito abbia presentato la sua relazione sorgano ancora interrogativi sulla comprensione e sulla valutazione dei fatti risultanti, circa il metodo della perizia stessa o sul grado di affidabilità scientifica delle conclusioni.

Ad esempio si potrebbe chiedere al perito:

Sul grado o gravità clinica del disturbo:

    - Tentare di descrivere in termini comuni quali sono le incidenze tipiche, nella vita ordinaria, dell’eventuale disturbo da lui osservato.

    - Se tale disturbo si trova in continuità con la storia clinica del soggetto.

     Se avrebbe richiesto o attualmente richiede cure mediche e di quale tipo.

    - Che grado di difficoltà rappresenta per il periziato tale anomalia per portare avanti una vita tutto sommato normale. Nel caso ritenga che tale difficoltà sia pesante, se pensa che il soggetto dovrebbe essere civilmente dichiarato inabile a svolgere certi lavori, affari o mansioni correnti (p. es. amministrare i propri beni).

    - Se il paziente era (al momento di sposare) capace di: svolgere un lavoro, studiare, compiere il servizio militare, concludere affari, dirigere un’azienda o un ufficio, mantenere amicizie o rapporti di lavoro, ecc. O magari, spiegare come essendo in grado di farle (il che a volte appare chiaro in atti), aveva invece difficoltà o impossibilità psicologica a stabilire un vero rapporto coniugale.

    - Se attualmente considera il soggetto capace di portare avanti una vita matrimoniale con una certa normalità, e se sì per quali ragioni non lo sarebbe stato all’epoca delle nozze.

sulla certezza della perizia:

Dato il carattere non esatto della psichiatria, il perito deve dire qual è il grado di certezza o probabilità scientifica delle sue conclusioni, e ciò non soltanto in senso teorico, ma in rapporto ai mezzi specifici (e alla loro qualità) di cui ha potuto servirsi per arrivare ad esse (visite, anamnesi, test, atti del processo)[23].

    - Gli si potrebbe quindi chiedere se, quanto da lui acquisito sullo stato del peritato, sarebbe sufficiente per poter indicare una terapia adeguata o se per fare ciò sarebbero necessari ulteriori accertamenti. O ancora se sulla sua perizia si potrebbe fondare una decisione sull’incapacità civile o sulla irresponsabilità penale del peritato.

5. La valutazione della perizia

Anche in questo tema si è tanto detto sui criteri legali (cf. c. 1578 e 1579) e dottrinali che devono considerarsi[24] e che non possiamo analizzare in questa sede. È tuttavia da osservare che, essendo la perizia parte dell’indagine processuale, ci devono essere diversi momenti di valutazione di essa e non soltanto quelli legati alla decisione sul merito. Abbiamo già detto della possibile richiesta al perito di ulteriori chiarimenti da parte del giudice istruttore e della possibilità che questi ordini altre perizie successive, e tutto ciò va legato ad una valutazione della perizia in chiave istruttoria.

Oltre a ciò, vorrei aggiungere che si può trasferire qui quanto detto prima sul buon senso. Bianchi ha espresso efficacemente i passi da compiere: il giudice “deve verificare, sulla base della logica comune, la persuasività delle conclusioni peritali”, per poi “sulla base della logica giuridica, attribuire ad esse la qualificazione canonica pertinente”, ovvero stabilire se la situazione psichica “peritalmente accertata... abbia intaccato e in modo sostanziale intelligenza e/o volontà del soggetto”[25].

Nel compiere ciò egli è libero nel valutare la perizia e nemmeno è tenuto a seguire le eventuali opinioni del perito che sconfinino nel campo giuridico; ha invece l’obbligo di vagliare la perizia entro l’insieme degli elementi di prova acquisiti (c. 1579 § 1), per vedere se c’è una convergenza tra di essi o se invece gli esiti periziali, per quanto scientifici nella loro logica interna, siano in collisione con altri dati di fatto che rimarrebbero inspiegabili.

È però evidente che non sarebbero accettabili le conclusioni peritali fondate su affermazioni, osservazioni, giudizi fatti dalle parti o dai testimoni (sul carattere o comportamento del periziando) che non trovino riscontro fattivo ben circostanziato e di conferma in altre testimonianze, negli stessi atti di causa. A mio parere giocano per tali conclusioni gli stessi requisiti che per le presunzioni: devono poggiare su fatti indiziari certi e determinati (c. 1586).

Viceversa, non si possono considerare provati fatti o notizie emerse nel colloquio tra perito e periziando che, a prescindere dalla loro valutazione clinica, non risultino confermati da altre risultanze istruttorie[26]. Anche su questo problema occorre una adeguata collaborazione tra giudice e perito, al fine di stabilire il grado (conscio o meno) di attendibilità del soggetto nel raccontare i fatti.

Esistono poi le difficoltà specifiche inerenti alle perizie riguardanti l’incapacità al matrimonio, e vorrei accennare a due di esse:

In primo luogo che la perizia, che si realizza durante il processo, deve avere un valore retrospettivo, riferito cioè al tempo delle nozze; a questo punto è necessario chiedersi quale rilevanza giuridica si possa dare a disturbi neuropsichici rilevati nell’in fieri solo come tendenziali oppure di disposizione (costitutiva o acquisita), episodici o in stato di latenza. A mio avviso la gravità che essi possono avere sviluppato nell’in facto esse, non può essere automaticamente riferita al momento nuziale, ma si deve accertare il loro effettivo influsso (pure inconscio) nel processo di formazione del consenso matrimoniale del periziato. Per questo accertamento va tenuto presente l’andamento reale della vita coniugale, il cui trascorso evidenzierà l’effettiva capacità o meno del soggetto di adempiere gli oneri matrimoniali.

In secondo luogo che le realtà nosografiche sono graduali e relative nella loro gravità e incidenza sull’esercizio delle facoltà spirituali, mentre invece la capacità giuridica al matrimonio non ammette gradi (per lo meno in iudicando), quindi al giudice si chiede una decisione definitiva sull’assenza assoluta della medesima. Ciò fa sì che i concetti, termini o espressioni adoperati (quali maturità, sviluppo affettivo, normalità, gravità, capacità, ecc.) non abbiano la stessa valenza in entrambi i campi. Mentre il perito prende forse come punto di riferimento il perfetto equilibrio psicologico, al giudice interessa quel minimo di autodominio personale che basta per poter esercitare lo ius connubii.

6. Conclusioni

In questo mio intervento sulla prova periziale nelle cause di nullità del matrimonio, lasciando da parte altri aspetti importanti, ho voluto sottolineare che il corretto rapporto tra giudice e perito, oltre alla necessaria distinzione dei ruoli, deve essere instaurato piuttosto sulla base della piena assunzione di essi (specie da parte del giudice), a cominciare dalla impostazione della perizia stessa.

Come mezzo di prova specifico, essa deve servire a stabilire non solo realtà astratte di ordine psichico, ma deve anche fornire al giudice elementi per la valutazione giuridica che di tali realtà egli deve compiere. A questo scopo sarebbe veramente utile il ricorso a spiegazioni in termini di vita corrente, di senso comune, di paragone con altri aspetti della relazionalità umana, che possano meglio chiarire l’incidenza di un eventuale disturbo nella specifica sfera del consenso matrimoniale.

Mi sembra che sia senz’altro da criticare il fatto che una perizia travalichi indebitamente dal campo medico a quello giuridico, che poggi su elementi frammentari della vita del soggetto, o cose simili. In questo caso perché possa conservare qualche elemento di oggettiva utilità, bisogna prima fugare il dubbio che la sbagliata impostazione non corrisponda ad uno schema preconcetto. Dopo tutto le conseguenze pratiche di un tale sconfinamento o parzialità sono che la perizia diventa meno utile al processo, rendendo forse necessarie ulteriori indagini dello stesso tipo. Quello che sarebbe ancora più deplorevole è che il giudice considerasse passivamente la perizia, come se fosse un semplice adempimento processuale dal quale prendere poi acriticamente gli argomenti base della propria decisione.

 

 



* Pubblicata in AA.VV. L’incapacità di assumere gli oneri essenziali del matrimonio (can. 1095 n.3), LEV, Città del Vaticano 1998, p. 187‑196.

[1] S. Berlingò, Perito (dir. can.), in Enc. Giur. XXIII, Roma 1990.

[2] Commento al c. 1095, in AA.VV., Código de Derecho Canónico. Edición anotada, 5ª ed., Pamplona 1992. Per Viladrich il 1095 stabilisce i casi o species facti in cui le malattie o disturbi psichici costituiscono incapacità consensuale (causa giuridica della nullità): è questo il concetto giuridico di base che si esplica in tre tipi legali. Il consenso, come atto psicologico umano deve essere conscio e libero ma anche proporzionato all’oggetto e all’impegno, cioè sufficiente natura sua al vincolo che da esso sorge: capacità di donarsi e di ricevere l’altro in matrimonio (oggetto e titolo). Chi non è capace di emettere un atto di volontà con tali caratteristiche, non è capace di consentire, quindi di contrarre. È nella natura del processo biopsicologico di sviluppo e maturazione della persona raggiungere tale capacità, se manca è per un difetto della struttura psichica del soggetto, o per una anomalia (anche transitoria): non c’è incapacità di una persona normale (ivi).

Prendo in considerazione tutte e tre le fattispecie d’incapacità del c. 1095; per un approfondimento sulla loro natura e autonomia: C. Gullo, Defectus usus rationis et discretionis iudicii (can. 1095, 1º-2º cic), in P.A. Bonnet e C. Gullo (a cura di), «L’incapacitas (can. 1095) nelle “sententiae selectae coram Pinto”», Città del Vaticano 1988, p. 7-30; C.J. Errázuriz M., Riflessioni sulla capacità consensuale nel matrimonio canonico, in «Ius Ecclesiae» 6 (1994) p. 449-464; E. Tejero, Naturaleza jurídica de la incapcidad para asumir las obligaciones esenciales del matrimonio y “ius connubii”, in «Fidelium iura» 6 (1996) p. 227-333.

[3] Si devono richiamare qui innanzitutto i discorsi del Papa alla Rota nei quali insiste che “deve rimanere chiaro il principio che solo la incapacità, e non già la difficoltà a prestare il consenso e a realizzare una vera comunità di vita e di amore, rende nullo il matrimonio”, incapacità che “è ipotizzabile solo in presenza di una seria forma di anomalia che, comunque si voglia definire, deve intaccare sostanzialmente le capacità di intendere e/o di volere del contraente” (1987, 7); aggiungendo poi che “solo le forme più gravi di psicopatologia arrivano ad intaccare la libertà sostanziale della persona” (1988, 6). Cf. J.T. Martín de Agar, L'incapacità consensuale nei recenti discorsi del Romano Pontefice alla Rota Romana, in “Ius Ecclesiae” I (1989), p. 395-422.

[4] Vedi ibid. (1988, n. 7). Come noto, le perizie di questo genere non sono consentite per il processo penale in Italia (cpp art. 220).

[5] Joan Carreras, Commento al c. 1680, in AA.VV., Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, vol. IV/2, Pamplona 1996, p. 1897.

[6] Qui si possono richiamare quegli indirizzi dottrinali e legislativi che vedono il perito più come consulente tecnico del giudice; comunque il suo ruolo attuale rimane nell’ambito della prova (per quanto specifica) non in quello decisorio; e nemmeno in quello istruttorio che spetta irrinunciabilmente a chi esercita la potestà giudiziaria (giudice o uditore). Cf. B. Gianesin, Perizia e capacità consensuale nel matrimonio canonico, Padova 1989, p. 49-51; S. Martín, La perizia nelle cause matrimoniali secondo la dottrina più recente, in AA.VV. «Perizie e periti nel processo matrimoniale canonico» (a cura di S. Gherro e G. Zuanazzi), Torino 1993, p. 122-127; I. Zuanazzi, Il rapporto tra giudice e perito secondo la giurisprudenza della Rota Romana, ivi, p. 161-167; P. Bianchi, Il c. 1095, con particolare riferimento al valore di prove delle perizie, in «Palestra del clero» 75 (1996) p. 364.

[7] CapPello, Summa iuris canonici, Romae 1940, p. 162. Non interessa qui la qualifica di teste che attribuisce al perito. Cf. L. Del Amo, Valoración jurídica del peritaje psiquiátrico sobre neurosis, psicopatías y trastornos de la sexualidad, in «Ius Canonicum» (1982) p. 651-706.

[8] Si è anche discusso se al perito spetta accertare l’esistenza di un certo fatto o solo di valutarne la portata; comunque il c. 1574 sembra chiaramente ammettere le due possibilità.

[9] Si vedano in merito le osservazioni di S. Martín, La perizia..., loc. cit., p. 140-141.

[10] Mi sembrano calzanti anche qui le osservazioni di Bianchi sulla prova presuntiva, e cioè che “talvolta, una ricostruzione giudiziaria insufficiente dei fatti e che lascia molte perplessità circa l’effettiva praticabilità della prova presuntiva, sembra derivare non già da una volontà reticente dei deponenti (parti o testi) o dalla obiettiva scarsità di conoscenza che essi hanno della vicenda su cui vengono sentiti, ma dal metodo di interrogatorio e di verbalizzazione dello stesso. Laddove quasi per abitudine non venga ai deponenti fatta richiesta di elementi di riscontro delle loro affermazioni (si intende: nomi, tempi, fatti precisi), ovvero l’indicazione della fonte della loro conoscenza (tutti elementi peraltro previsti dai cann. 1563-1564 e 567 § 1); ovvero ancora dove non vengano fatte contestazioni di dichiarazioni discordanti anche ai sensi del can. 1560 § 2: è assai verosimile che la ricostruzione giudiziaria dei fatti non potrà che restare vaga e insufficiente” (P. Bianchi, Le prove: a) dichiarazioni delle parti; b) documenti; c) perizie, in AA.VV., «I giudizi nella Chiesa. Il processo contenzioso e il processo matrimoniale», Milano 1998, p.95). Cf. Id., Il c. 1095..., cit., p. 369.

[11] Cf. Z. Grocholewski, Il giudice ecclesiastico di fronte alle perizie neuropsichiatriche e psicologiche, in Z. Grocholewski-U. Tramma, «In tema di dichiarazione di nullità del matrimonio canonico», Roma s/d, p. 7-37.

[12] L. Del Amo, Commento al c. 1680, in AA.VV., Código de Derecho Canónico. Edición anotada, 5ª ed., Pamplona 1992. Cf. B. Gianesin, Perizia e capacità..., cit. p. 107-109.

[13] P. Bianchi, Le prove..., cit., p. 98. Cf. I. Zuanazzi, Il rapporto tra..., loc. cit., p. 176-177.

[14] Cf. P.J. Viladrich, Commento al c. 1095, loc. cit. Tale nesso non lo deve stabilire il perito, né gli si può chiedere di stabilirlo. Al perito si chiede una diagnosi clinica e psicologica particolare: non in ordine alla cura del soggetto ma in vista di stabilire se il disturbo di cui è affetto può essere stato il fatto causa di incapacità, cioè se gli impediva di emettere un consenso valido.

[15] Come abbiamo notato, nel suo discorso alla Rota del 1987 il Santo Padre afferma che “una vera incapacità è ipotizzabile solo in presenza di una seria forma di anomalia che, comunque si voglia definire, deve intaccare sostanzialmente le capacità di intendere e/o di volere del contraente” (n. 7). Il problema è a chi spetta dire se c’era tale sostanziale tacca, al giudice o al perito, poiché sembra chiaro che della risposta valida a tale quesito dipende la decisione di merito.

[16] P. Bianchi, Le prove..., loc. cit., p. 103. Sempre in ipotesi il giudice si potrebbe pronunciare (tenuto conto degli altri dati di fatto emersi nell’istruttoria), ammettendo o respingendo le conclusioni peritali sulla presenza della malattia al momento delle nozze, o anche sugli effetti di essa nella sfera intellettiva o volitiva del peritato in rapporto alla capacità matrimoniale.

[17] “Periti sunt adiutores Iudicis, ac proinde concipi nequit quod eorum methodus evolvatur in ordine totaliter diverso a methodo iuris” (in una c. Sabattani del 15.V.1964, SRRD, LVI, 1964, p. 369).

[18] Cf. L. Del Amo, Valoración jurídica..., cit., p. 654; I. Zuanazzi, Il rapporto tra..., loc. cit., p. 154-155.

[19] Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, 1988, nn. 4-5.

[20] Non possiamo soffermarci qui sull’interessante argomento del dialogo tra periti: vid. G. Zuanazzi, Il dialogo tra canonisti e periti, in AA.VV. «Perizie e periti...» cit., p. 29 e 32-33.

[21] Cf. J.M. Serrano ruiz, La perizia nelle cause canoniche di nullità matrimoniale, in AA.VV. «Perizie e periti...» cit., p. 78-80 e 86.

[22] P. Bianchi, Il c. 1095..., cit., p. 370.

[23] Voglio almeno richiamare qui il problema delle perizie cartolari, per le quali si deve distinguere tra la loro teorica ammissibilità processuale e la loro effettiva utilità probatoria, da verificare caso per caso con indipendenza dei motivi che hanno fatto impossibile l’esame diretto del periziando. Si pone anche il problema della legitimità professionale e legale di queste perizie se fatte all’insaputa o contro la volontà del peritato, il quale ha anche il diritto di conoscerne il contenuto; di recente in Olanda una psichiatra è stata ammonita e multata dal Collegio medico per avere steso una perizia (su incarico del tribunale ecclesiastico di Roermond) senza avere intervistato la peritata né chiesto la sua autorizzazione, dannegiando così il prestigio della psichiatria; alla Chiesa cattolica nei Paesi Bassi è stato chiesto un risarcimento per questo fatto.

[24] Schematicamente la questione viene riassunta nel confronto tra le regole peritis in arte credendum e iudex peritus peritorum. Cf. B. Gianesin, Perizia e capacità..., cit. p. 119-129; Z. Grocholewski, Il giudice ecclesiastico..., loc. cit., p. 26-29.

[25] P. Bianchi, Le prove..., loc. cit., p. 101–102. Molto incisive e pratiche le osservazioni di Del Amo (Valoración jurídica..., cit., p. 672-681).

[26] Il Codice di procedura penale italiano (art. 228, 3) ricorda che “gli elementi in tal modo acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell’accertamento peritale”. Nella c. Sabattani sopra citata si richiama la distinta prospettiva con cui vengono giudicate tali notizie: “iuxta criterium iuridicum quaelibet intentio partis actricis debet invicte probari. Iuxta criterium clinicum, e contra, id quod actor refert de seipso et de suis morbis iam praesumitur veritati respondere, et perito nihil aliud competere nisi illustrare per scientiam, non utrum, sed quomodo id evenerit”. Per cui, conclude, “relate ad adagium «peritis in arte credendum est», animadverti debet adagium illud pati exceptionem quando iidem periti in suis conclusionibus trahendis unice nituntur criterio clinico, et non etiam criterio iuridico”.