LIBERTÀ RELIGIOSA, UGUAGLIANZA E LAICITÀ(*)

José T. Martín de Agar

Pontificia Università della Santa Croce

 

Il tema dei principi del diritto eclesiastico riguarda non soltanto l’identità e autonomia scientifica della disciplina, ma altre questioni di natura ben più pratica in cui la posta in gioco è l’effettivo rispetto della dimensione religiosa dell’uomo. In queste pagine mi propongo di riflettere sul rapporto di equilibrio che deve esistere tra i princìpi di libertà religiosa, uguaglianza e laicità nel diritto ecclesiastico statale.

La libertà religiosa ci si presenta innanzitutto come diritto dell’uomo a porsi in relazione con Dio secondo il dettato della propria coscienza, senza coazione da parte di altri soggetti, cioè il diritto a manifestare e vivere liberamente la propria religiosità di fronte a qualunque istanza sociale, senza altro limite che il giusto ordine pubblico.

La sensibilità in favore di questa libertà acquisisce contorni giuridici nell’epoca delle rivoluzioni moderne, come reazione all’intolleranza degli Stati confessionali che consideravano la religione come un fattore di unità politica che non poteva sfuggire alla loro competenza. La libertà religiosa si rivendica prima di tutto di fronte all’autorità civile; lo Stato, i poteri pubblici sono i soggetti che, in primo luogo, devono riconoscere, rispettare e garantire la libertà religiosa dei cittadini, una volta ammesso che la loro competenza in materia religiosa si riduce a dettare le norme necessarie perché ciascuno possa effettivamente sviluppare questo ambito della sua personalità senza essere costretto da nessuno.

Proprio perché la storia mostra che l’intolleranza, le persecuzioni e la discriminazione sono il frutto della strumentale confessionalità dello Stato, nel momento in cui vengono ad affermarsi le idee di libertà e uguaglianza dei cittadini, appare palese l’incompatibilità della confessionalità con queste: essa costituisce un qualcosa che, finché perdura, sarà sempre una minaccia per quegli ideali. Per questo lì dove trionfano le forme repubblicane e si abolisce la monarchia, si proclama anche la aconfessionalità, la separazione tra lo Stato e la religione, intendendosi con questa innanzitutto le confessioni religiose.

Indipendentemente dal tono più o meno radicale col quale si dà attuazione a questi postulati, sembra evidente che uno Stato slegato da qualunque confessione può trattare in modo eguale tutti, senza interferire nelle loro idee o convinzioni religiose. La libertà può essere meglio garantita se lo Stato considera uguali tutte le confessioni, e non fa propri il credo o l’organizzazione di nessuna di esse. Aconfessionalità, laicità, separatismo appaiono come garanzie di libertà per tutti senza discriminazioni[1].

Così appare dall’esperienza nord americana, dove il diritto di libertà religiosa[2] trova la sua garanzia pratica nel Primo emendamento della Costituzione, che limita la competenza dei poteri pubblici in materia religiosa: il disposto delle due clausole che sostanzialmente articolano l’emendamento[3], “nel momento in cui consacrava l’ideale liberale della separazione tra lo Stato e le Confessioni religiose, lo faceva senza rivestirlo di una matrice antireligiosa che portava a una interpretazione restrittiva della libertà”[4]. Una separazione in ordine all’uguaglianza, un’uguaglianza destinata ad assicurare la stessa libertà per tutti[5].

In Europa invece, la laicità dello Stato e la stessa libertà di culti riflettono nelle loro prime formulazioni costituzionali un atteggiamento negativo nei confronti della religione, e servono piuttosto come strumento per sottomettere le confessioni. Però questo criticismo tipico del giurisdizionalismo del secolo scorso va poco a poco scomparendo, nella misura in cui maturano i sistemi democratici e si fa strada la coscienza dell’importanza dei diritti umani e di una loro garanzia che sia reale, e non meramente formale; “in questo senso –dice Viladrich–, c’è stato nell’evoluzione del trattamento del fattore religioso nelle democrazie occidentali un naturale processo di atrofizzazione degli atteggiamenti ideologici di principio”[6].

La libertà religiosa giunge a costituire il tema centrale del diritto ecclesiastico dello Stato, il criterio che definisce le relazioni di questo con le confessioni[7]. La centralità della libertà religiosa riceverà una conferma concreta nelle dichiarazioni e nelle convenzioni internazionali di diritti, per quanto in questi atti la dimensione istituzionale della libertà religiosa sia ancora trascurata[8], soprattutto se si confronta con l’ampia trattazione che riceve nella Dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II[9].

E tuttavia il primato della libertà continua ad essere ancora un ideale teorico che trova nella pratica non pochi ostacoli. Non mi riferisco qui alle situazioni di quei paesi in cui ancora non si riconosce questo diritto o dove tale riconoscimento non va oltre una semplice espressione verbale; mi riferisco a non poche situazioni di paesi che vantano una certa tradizione democratica e hanno sottoscritto quando non promosso molteplici convegni di diritti umani, nei quali a mio parere la libertà religiosa trova, in diversi momenti della sua promozione pratica, ostacoli in cui non si imbattono altri diritti fondamentali[10].

Basta un esempio: esistono partiti politici di tendenza molto diversa, e lo Stato li sostiene; ci sono sindacati di differenti tendenze, e lo Stato li aiuta; giornali e periodici di opinioni diversissime ricevono dallo Stato mezzi economici per sussistere; invece, riguardo alle confessioni religiose ci si apella alla neutralità, alla laicità, alla separazione per negare loro qualunque tipo di promozione: sembra quasi che la libertà religiosa sia un diritto di seconda categoria[11].

Da un punto di vista meramente ecclesiasticista intendo affermare che la causa di questa differenza si può trovare nella pretesa di spostare l’asse del sistema dalla libertà religiosa ad altri princìpi che sarebbero prevalenti: l’uguaglianza, la laicità, la separazione dello Stato. Si dimentica, cioè, che questi princìpi non possono essere fini a se stessi ma mezzi per garantire meglio la libertà religiosa di tutti. Certamente possono implicare un limite pratico alla libertà di alcuni, ma ciò è per assicurare questa stessa libertà ad altri. Quando invece si considerano come princìpi statali prioritari, l’estensione della loro prevalenza può facilmente risultare arbitraria[12].

Libertà religiosa e uguaglianza[13]

L’uguaglianza giuridica è in diversi modi necessariamente relativa[14]. Da una parte non è in se stessa un diritto pieno, non ha un oggetto proprio ma fa riferimento ai diritti[15], di modo che in generale le facoltà, le prerogative, i poteri o le capacità che questi comportano siano uguali per tutti indipendentemente, nel nostro caso, dalla fede che professano o dalla confessione a cui appartengono, e in particolare che il diritto di libertà religiosa sia lo stesso per tutti. Su questo piano dei diritti (dello spazio di libertà che garantiscono) si può ben affermare che l’uguaglianza impone di dare a tutti lo stesso: lo stesso diritto, la stessa libertà, e questo perché il suo fondamento è il medesimo in tutte le ipotesi: l’uguale dignità naturale di ogni uomo.

In secondo luogo, l’uguaglianza è necessariamente relativa al piano dei fatti proprio perché la libertà smette di essere tale se s’impone a tutti l’obbligo di esercitarla allo stesso modo. Questo sembra ovvio: chiunque capisce che permettere l’esercizio di un’unica religione adducendo a pretesto l’uguaglianza significherebbe una uniformità ingiusta sotto tutti i punti di vista. Però quando ci si oppone a che gli alunni ricevano l’educazione religiosa che desiderano (essi o i loro genitori), appellandosi al fatto che altri non desiderano riceverne nessuna, non si avverte che in realtà il ragionamento, benché condotto in modo meno radicale, è lo stesso: si eleva l’uguaglianza a principio assoluto e prevalente per ridurre arbitrariamente la libertà, o addirittura soggiogarla, con l’imposizione di opzioni minime adducendo ad argomento che sono le uniche compatibili con l’uguaglianza[16].

Il che è inoltre irreale perché nella pratica né la libertà né l’uguaglianza possono essere assolute[17] ma devono integrarsi secondo giustizia[18], e ciò esige che situazioni di fatto differenti siano diversamente trattate, tanto più quando questa differenza è frutto dell’esercizio della libertà: “il volere attuare una perfetta parità o uguaglianza di trattamento giuridico verrebbe necessariamente a significare che lo Stato, in omaggio a pure astrazioni o teorie, dovrebbe disconoscere la concreta realtà dei fatti; il che allo Stato non è concesso, dato che la sua vita e la sua azione si svolgono esclusivamente nel mondo delle realtà”[19]; su questo piano la proporzionalità tra norma e realtà alla quale si applica è richiesta dalla razionalità, che implica la distinzione tra discriminazione e giustificabili differenze di trattamento[20].

In nome del realismo l’uguaglianza esige una positiva attuazione dei poteri per rimuovere gli ostacoli, le differenze ingiuste e pertanto discriminatorie, che impediscono ai più deboli l’effettivo esercizio dei loro diritti, ma questo non equivale a cercare di cancellare qualsiasi differenza[21] né lo si ottiene impedendo o limitando il diritto di coloro che sono già in condizioni di esercitarlo pienamente e secondo le loro preferenze[22].

L’uguaglianza come principio primo riduce la libertà religiosa a quella semplice immunità da ogni coazione (suo momento negativo primario) che non può considerarsi sufficiente in uno Stato che si dica promotore e garante dello sviluppo reale dei diritti. Invece l’uguaglianza giuridica deve mirare a rendere possibile nella pratica la varietà, per questo Dalla Torre ha potuto scrivere che l’uguaglianza dovrebbe piuttosto formularsi come diritto alla diversità[23], affinché, contro ogni uniformismo, si tengano in conto le differenze di fatto. La sua relazione con la libertà è innanzitutto quella di garantire l’uguale e reale libertà di tutti senza privilegi o discriminazioni, impedendo che le opzioni o pretese di alcuni diminuiscano di fatto la libertà di altri, impedendo o riducendo di fatto il pluralismo.

E’ in tal senso che l’uguaglianza funziona come limite pratico della libertà, tenendo comunque presente che questa funzione ha la sua ragion d’essere e la sua misura nella tutela per tutti dello stesso diritto di libertà religiosa. La relazione di equilibrio tra libertà e uguaglianza può riassumersi nella massima libertà possibile per tutti e la minima uguaglianza necessaria per garantirla. Non sarebbe invece adeguato, a mio parere, un equilibrio che si limitasse a garantire la stessa immunità di coazione a tutte le opinioni religiose, senza riconoscimento alcuno delle manifestazioni vitali della religione nella società[24].

Libertà religiosa e laicità dello Stato

La laicità o neutralità dello Stato in materia religiosa, che implica la sua separazione, più o meno esplicita, dalle istituzioni religiose, sorge anche come reazione all’intolleranza confessionalista che la storia lamenta e, in definitiva, come meccanismo di tutela della libertà religiosa per tutti. Lo Stato non fa sua né lui si fa di nessuna confessione, proprio per svolgere il ruolo che gli spetta di promotore e garante della libertà religiosa di tutti senza differenze, interessandosi alla religione in quanto dimensione umana che esige libertà, nell’intimità dell’individuo e nelle sue manifestazioni pratiche, individuali e collettive.

Però la neutralità, la laicità o la separazione non possono essere i princìpi che definiscono in modo fondamentale la posizione dello Stato nei confronti della religione, essendo questa una funzione che spetta al principio di libertà. Gli altri princìpi hanno una valenza pratica puramente negativa, di non interferenza, partitismo o intervento dello Stato nelle opzioni religiose dei cittadini; la libertà religiosa, invece, benché si esprima innanzitutto come incompetenza dello Stato in queste opzioni, esige inoltre da questo un’attività positiva in ordine a definire, tutelare e promuovere con giustizia i concreti contenuti, non della religione bensì delle sue manifestazioni aventi una rilevanza sociale.

La laicità, la neutralità o la separazione non sono in sé dei diritti (né della persona né dello Stato), ma princìpi che caratterizzano l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle opzioni religiose dei cittadini e davanti le confessioni di cui questi fanno parte[25], per quanto siano princìpi in sé insufficienti a definire quest’atteggiamento: devono servire come ulteriore garanzia della libertà religiosa e se non si riferiscono a questa smettono di aver senso o si trasformano in manifestazione di statalismo.

Infatti, quando si pretende di subordinare la libertà religiosa a qualche altro principio, allora la laicità tende a trasformarsi in laicismo, la neutralità in agnosticismo, la separazione in ostilità. Lo Stato si fa militante (confessionale) di quegli atteggiamenti, che in qualche modo cerca di trasformare da princìpi giuridici di garanzia, da autolimitazioni, in valori sociali, e pretende di connotare la vita sociale con quelle che sono e devono restare note dello Stato[26], che caratterizzano la sua attività proprio per proteggere le libertà sociali da qualsiasi minaccia, in modo speciale quella di un potere politico totalitario. Questo succede per esempio quando si afferma che la scuola pubblica deve essere laica perché lo Stato lo è[27].

Lo Stato può dirsi neutrale, laico o aconfessionale, però questo non può significare che il suo compito consista nel neutralizzare la vita religiosa o la presenza sociale delle confessioni, né nel secolarizzare la società o promuovere l’agnosticismo dei cittadini. Come dice González del Valle, “che lo Stato sia aconfessionale non significa che possa partire dal presupposto che i cittadini non pratichino alcuna religione o che la società in quanto tale è areligiosa”[28], né tanto meno può considerarsi investito di una missione secolarizzatrice[29].

Questo accade o può accadere quando si dimentica il ruolo centrale della libertà religiosa, che non può essere semplicemente un risultato, come un sottoprodotto della laicità, neutralità o separatismo statali; qualcosa che, nella pratica, si tollera invece di promuovere positivamente[30]. Al contrario, come dice Rhonheimer «la cosiddetta “neutralità” dello stato si basa su una netta non neutralità rispetto a quei valori fondamentali che formano l’assetto costituzionale, innanzitutto i “diritti dell’uomo”»[31]. Se il bene comune e lo Stato si definiscono in funzione della persona, i princìpi dell’ordine statale non possono considerarsi autonomi o in concorrenza con i diritti umani, che ne costituiscono il suo fondamento ultimo.

Anche negli USA un’interpretazione massimalista della non establishment clause, ha portato a considerare il separatismo come l’asse portante del sistema che definisce la posizione dei poteri pubblici nei riguardi della religione, con una rigidità che impedisce non tanto il trattamento disuguale delle confessioni, o il coinvolgimento (entanglement) dello Stato con qualcuna di esse, ma qualsiasi tipo di promozione o aiuto (diretto o indiretto, federale o statale) alla vita religiosa dei cittadini, quasi che lo sviluppo di questa o la soddisfazione degli interessi religiosi non possano avere nessuna relazione con lo svolgimento della convivenza sociale, quando la realtà e la storia dimostrano il contrario[32]. Certamente l’idea sul ruolo sociale della religione di coloro che introdussero il Primo emendamento, e l’intenzione che li spinse a introdurre questa clausola, erano molto differenti, in quanto essi reputavano che la funzione di tale atto non consisteva nel negare un aiuto per rendere effettivo l’esercizio di tale diritto, ma nell’impedire un trattamento discriminante e ogni ingerenza (statale o, viceversa, confessionale)[33].

In questo modo una separazione che mirava a proteggere la libertà religiosa nei riguardi dei pubblici poteri si converte in disconoscimento della dimensione sociale del fatto religioso, di modo che la libertà religiosa tende ad essere protetta “only to the degree that it has any social consequences”[34]; si giunge così al paradosso per cui, mentre si ammette, logicamente, che la free exercise clause può subire restrizioni a causa di interessi sociali prevalenti, la separazione non sarebbe limitata da questo stesso tipo di interessi, di modo che gli aiuti sociali dello Stato non possono servire a soddisfare in nessun modo gli interessi religiosi dei cittadini, né a sostenere attività benefiche promosse dalle confessioni.

E’ in definitiva il pregiudizio di chi considera che la libertà religiosa può essere intesa solo dal punto di vista del relativismo, per cui chi si reputa nella verità (e più ancora nella verità religiosa dogmatica) è di necessità un intollerante o almeno va guardato con sospetto; come se l’indifferente o lo scettico non avessero bisogno di argomentazioni per difendere la loro posizione, e fossero esenti da ogni sospetto. Intolleranze ce ne sono state di tutti i tipi, e non solo di matrice confessionale[35]; questa è una ragione in più per dubitare che la laicità dello Stato possa garantire perfettamente una libertà religiosa che gli fosse subordinata, e come da essa in un certo modo generata[36].

La neutralità invece che non si limita al suo ruolo di promotrice della libertà necessariamente cessa di essere tale, con il pericolo di assolutizzarsi fino alla tirannia, proprio perché, come osserva D’Agostino, “un potere ‘neutrale’ non è però un potere relativizzato o relativizzabile; anzi diviene un potere non più contestabile, perché proprio a partire dalla sua neutralità esso afferma di essere in grado di assorbire qualunque pretesa, di assolvere qualunque compito, di riconoscere qualunque istanza e quindi di pretendere una compiuta ubbidienza”[37].

Religione, bene comune e ordine pubblico

Al di là delle disquisizioni tecniche sull’equilibrio tra i princìpi di diritto ecclesiastico, vi è la questione del valore che si attribuisce alla religione, alla dimensione e agli interessi religiosi dell’uomo, nella vita sociale. Solo quando si riconosce che è parte del bene comune e non una semplice questione privata si è nelle condizioni di comprendere l’importanza reale della libertà religiosa. I diritti umani non sono scatole vuote[38], sono ambiti positivi della vita che ciascuno deve poter sviluppare con la maggiore libertà possibile, e che coinvolgono la persona, soggetto principale della comunità sociale, nelle sue varie dimensioni e nei suoi interessi.

Il benessere o la felicità non sono mai qualcosa di meramente individuale né meramente collettivo, ma partecipano di entrambe le dimensioni in modo conforme alla natura dell’uomo[39]. D’altra parte la religione non è un compartimento stagno della vita umana: la illumina e si manifesta in tutte le sue sfaccettature. Per questo non è sufficiente una libertà di religione che ne escluda le manifestazioni sociali.

I princìpi di uguaglianza e laicità esigono che lo Stato consideri tutti gli individui come cittadini (uguali in dignità e diritti) e non come credenti di una o di un’altra religione o di nessuna, e ugualmente tratti tutte le confessioni come tali, cioè come soggetti collettivi della religione e pertanto della libertà religiosa, senza entrare a giudicare sulla veracità o falsità del credo che predicano, o preferirne in modo discriminante una rispetto alle altre. Però non significano che debba adottare, e tanto meno diffondere, una posizione negativa o minimalista davanti alla religione, né che sia indifferente riguardo alle esigenze concrete e sociali che la soddisfazione degli interessi religiosi dei cittadini comporta. Come non lo è in altre materie.

Orbene, qualsiasi risposta di natura giuridica ai problemi che abbiamo indicato, richiede un’adeguata nozione di ordine pubblico e di bene comune, in definitiva dei criteri con cui lo Stato in una società pluralista deve accostarsi alle iniziative, ai gruppi o ai comportamenti che sono frutto o espressione dell’esercizio delle libertà. Nel nostro caso, della libertà religiosa.

Nella nozione di ordine pubblico rientrano, senza alcun dubbio, vita sociale e ordinamento giuridico, o se si vuole costituzione materiale-sociale e costituzione giuridico-formale. In questo ambito i diritti fondamentali trovano la tutela positiva ed efficace del loro contenuto essenziale e i limiti necessari che garantiscono a tutti il loro godimento pacifico e ordinato.

A sua volta l’ordine pubblico è parte del bene comune, suo nucleo fondamentale, l’insieme di beni e valori indispensabili per la vita della società, senza i quali questa si deteriora fino a diventare impossibile. La linea di frontiera tra bene comune e ordine pubblico non è chiaramente definita e nitida; ritengo comunque che possono farsi due considerazioni al riguardo. La prima è che si possono invocare come di ordine pubblico princìpi, valori o fini puramente statali, ma solo nella misura in cui sono in relazione all’effettiva tutela dei diritti della persona; lo Stato (che definisce e garantisce l’ordine pubblico) non può infatti perseguire obiettivi o fini propri che non riguardino o che siano contro il bene della società. Per questo la laicità, la neutralità o la separazione dello Stato trovano la loro ragion d’essere nella protezione della libertà religiosa. La seconda è che l’ordine pubblico sarà meglio tutelato nella misura in cui lo Stato promuova positivamente l’intero bene comune della società, e non si limiti ad intervenire per proteggerne il nucleo fondamentale.

Ovviamente il bene comune che deve promuovere lo Stato non è il bene di alcuni (pochi o molti) e non di altri, né può essere definito a priori in base a criteri ideologici, o a utopie politico-sociali che esigono il sacrificio del presente in vista di un futuro paradiso[40]. A mio parere il bene comune è il bene delle persone in società, la buona convivenza tra persone. Fanno parte di esso tutti quei fattori che contribuiscano nei fatti a rendere la vita dei cittadini più giusta, pacifica, e che arricchiscano sempre di più i suoi membri sotto tutti gli aspetti.

In questo contesto, cogliere la positività della religione, la sua bontà per la vita sociale, non implica il dovere di adottare una specifica religione, o che lo Stato, le sue leggi, debbano entrare in quegli aspetti della vita religiosa che per natura sfuggono loro; si tratta di evincere dall’essere dello Stato e del suo diritto la rilevanza sociale delle concrete opzioni religiose presenti, la loro importanza per il bene comune e per la stessa sussistenza della società[41].

L’uomo impara a coltivare le virtù, i valori e gli atteggiamenti di convivenza in ambienti, relazioni, società o gruppi che formano il tessuto sociale e che lo Stato non è in grado di sostituire, ma che può promuovere guidato da criteri oggettivamente civili: il servizio che prestano a determinati cittadini e i frutti di convivenza e solidarietà che apportano alla società. Un siffatto atteggiamento nei riguardi delle manifestazioni sociali della religione deve definire, mi pare, la laicità dello Stato. Uno Stato che non intende se stesso come fonte e fondamento dell’etica cittadina, ma che cerca di cogliere, tutelare e favorire quei comportamenti che costruiscono la vita sociale, mentre si oppone a quelli che la distruggono.

Penso che questo sia il criterio fondamentale della morale pubblica e quindi dell’ordine pubblico: una cosa è tanto più buona quanto più favorisce di fatto le relazioni di convivenza, e sarà invece da evitare nella misura in cui le degrada. Un criterio civile –conviene insistere– che può servire per ridurre civilmente le inevitabili tensioni che il pluralismo origina, in quanto giudica le diverse opzioni non adottando una di esse come paradigma (ciò sarebbe riduttivo per le altre), né tanto meno secondo pregiudizi ideologici o fideistici sulla sua bontà o malizia sociale, o in ragione della sua utilità per gli “alti fini dello Stato” e la grandezza nazionale, ma in relazione al bene o al danno, reali ed effettivi, che comportano per la convivenza cittadina[42].



(*)Pubblicato in «Ius Ecclesiae», (1995) pp.199-215.

[1] La proclamazione e la formulazione concrete dei diritti civili non sono la diretta conseguenza delle idee filosofiche su cui si fondano, in buona parte molto precedenti ad esse, ma sono in primo luogo una risposta tecnica, politica e giuridica di fronte all’esperienza storica della loro negazione. Anche la loro concreta interpretazione ed applicazione danno forma, e al contempo riflettono, il pensiero, la sensibilità, le tradizioni e il diritto costituzionale di ogni paese (Cfr. M. Rhonheimer, Perché una filosofia politica? Elementi storici per una risposta, in «Acta Philosophica», I (1992) p. 243-244).

[2] Formulato nella Sezione 16 della Dichiarazione dei diritti della Virginia (1776), dove si afferma che “all men are equally etitled to the free exercise of religion, according to the dictates of conscience”, per poter compiere secondo la ragione e senza violenza “the duty which we owe to our Creator”, in J. Hervada - J.M. Zumaquero, Textos internacionales de derechos humanos, Pamplona 1978, p. 35.

[3] “Congress shall make no laws respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof”. Sulla sua interpretazione vd . R.S. Alley (ed.), The Supreme Court on Church and State, New York-Oxford 1988.

[4] P. Lombardía, Síntesis histórica, in AA. VV., Derecho Eclesiástico del Estado español, Pamplona 1980, p. 77. Vd. J.M. González del Valle, Derecho Eclesiástico Español, 2ª ed., Madrid 1991, p. 158-160.

[5] Cfr. J.E. Wood, Jr., The U.S. Supreme Court’s interpretation of the religion clauses the First Amendment, in «Anuario de Derecho Eclesiástico Español» (d’ora innanzi lo indicheremo con ADEE), VI (1990) p. 409; J. Martínez-Torrón, La objeción de conciencia en la jurisprudencia del Tribunal Supremo norteamericano, in «ADEE», (1985), p. 453 s.

[6] Los principios informadores del Derecho eclesiástico español, in AA. VV. Derecho eclesiástico del Estado español, Pamplona 1980, p. 226. Vd. J. Ferrer, Laicidad del Estado y cooperación con las confesiones, in (ADEE), III (1987) p. 239-240.

[7] Cfr. F. Ruffini, Corso di Diritto ecclesiastico italiano. La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Torino 1924, p. X-XI, 4 e passim; Id. La libertà religiosa. Storia dell’idea, Torino 1901. La considerazione della libertà religiosa come diritto personale e come principio che definisce lo Stato nelle sue relazioni con la religione come fattore sociale, è stata sviluppata da Viladrich in riferimento alla Costituzione spagnola (Los principios informadores del Derecho eclesiástico español, in AA.VV., Derecho Eclesiástico del Estado español, Pamplona 1980, p. 251 ss.), dando vita ad una teoria dei princìpi di diritto ecclesiastico che in realtà si può applicare a qualunque Stato democratico. Parlando della relazione tra il diritto e il principio di libertà religiosa Viladrich avverte che “siendo la naturaleza de toda persona, su dignidad y libertad, realidades preeminentes respecto del Estado, éste se configura -si es respetuoso con los derechos humanos- a la luz y al servicio del hombre, y no al revés. Por ello mismo, el principio de libertad religiosa, como principio configurardor del Estado, depende en su fundamento y significado del derecho de libertad religiosa, de igual modo que el Estado encuentra su correcta identidad y misión a la luz y al servicio de la persona.

“La correlación persona-Estado está, por tanto, en la base de la distinción entre derecho y principio de libertad religiosa. Del modo como concibamos la primera, se resuelve necesariamente la segunda. Y así, de la misma manera que en la correlación persona-Estado se ventilan conceptos tan importantes como sociedad, bien común y orden público, también en la distinción entre derecho y principio de libertad religiosa quedan éstos involucrados” (ibid., p. 261-262). Cfr. J.M. González del Valle, Derecho Eclesiástico..., cit., p. 143.

[8] Cfr. tra gli altri Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (ONU, 1948), art. 18; Convegno per la protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (Consiglio d’Europa, 1950), art. 9 e Protocollo addizionale 1º (1952), art. 2; Patto internazionale dei Diritti civili e politici (ONU, 1966), art. 18; Convenzione Americana dei Diritti Umani (S. José di Costa Rica, 1969), art. 12. In tutti questi atti si riconosce il diritto di praticare e diffondere la religione individualmente e collettivamente, però non si fa menzione delle confessioni religiose. Timidamente si riferisce ad esse la Dichiarazione sulla eliminazione di tutte le forme di intolleranza e discriminazione fondate sulla religione o sulle convinzioni (ONU, 1981), art. 6 i); sta comunque il fatto che, nella pratica, si riconosce alle confessioni la titolarità del diritto di libertà. Vd. J.M. González del Valle, El Estado y la financiación de las confesiones, in “Ius Canonicum” XXXIII (1993) p. 124; J. Matínez-Torrón, El derecho de libertad religiosa en la jurisprudencia en torno al Convenio europeo de Derechos Humanos, in ADEE, II (1986) p. 403-496; G.M.Morán, Contribución al estudio del derecho eclesiástico internacional, in ADEE, VII (1991) p. 49-78; L. Navarro M., Dos recientes documentos  de las Naciones Unidas sobre la tutela de la libertad religiosa, in AA.VV., Las relaciones entre la Iglesia y el Estado. Estudios en memoria del Profesor Pedro Lombardía, Madrid 1989, p. 197-209.

[9] Cfr. C. Soler, La libertad religiosa en la Declaración conciliar “Dignitatis Humanae”, in «Ius Canonicum», XXXIII (1993) p. 21-24. I documenti della CSCE col tempo hanno preso sempre più in considerazione le confessioni religiose, Cfr. al riguardo J. Joblin, Liberté religieuse e l’Acte final de Helsinki, in «Apollinaris» (1992), p. 352-353.

[10] “In vari Paesi norme legali e prassi amministrative limitano od annullano di fatto i diritti che formalmente le Costituzioni riconoscono ai singoli credenti ed ai gruppi religiosi” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1988, 8.XII.1987, n. 2).

[11] In linea con Scheuner, González del Valle osserva che “i fini e gli interessi statali e i fini e gli interessi pubblici sono cose distinte. I partiti politici e i sindacati, per esempio, hanno obiettivi e interessi propri che non si possono identificare con i fini e gli interessi dello Stato; però non per questo è possibile qualificare questi obiettivi e interessi  come fini e interessi  privati. Lo stesso avviene con i fini e gli interessi  delle confessioni religiose”, (Confesiones religiosas, in AA.VV., Derecho eclesiástico del Estado español, 3ª ed., Pamplona 1993, p. 235-236). Nella linea di declassamento della religione si pongono le Ordinanze del T.A.R. Emilia Romagna del 1 agosto 1992, nn. 470 e 471, che considerano educative le attività culturali, sportive, ricreative, visite turistiche, assemblee, ecc., ma excludono che possa esserlo la libera partecipazione ad un atto di culto;vd. «Il Dir. Eccl.», 1992 II, p. 393-394, con nota di A. Bettetini, Osservazioni in tema di libertà religiosa e di atti di culto (ivi p. 395-399); vd. anche P. Cavana, Atti di culto nella scuola pubblica e principio di laicità, in «Il Dir. Ecl.», 1992 I, p. 158-179.

[12] Sulla centralità del principio di libertà religiosa come il più idoneo per il pieno riconoscimento e la tutela del diritto di libertà religiosa, vd . P.J. Viladrich - J. Ferrer, Los principios informadores de Derecho eclesiástico español, in AA.VV., Derecho eclesiástico del Estado español, 3ª ed., Pamplona 1993, p. 184. Cfr. J.M. González del Valle, Derecho Eclesiástico..., cit., p. 141.

[13] Il principio di uguaglianza trascende il campo del diritto ecclesiastico, che ne costituisce un ambito concreto di applicazione, con le caratteristiche che gli conferisce la religione come fatto sociale. In questo ambito della relazione tra libertà e uguaglianza in materia religiosa si muovono le mie considerazioni. Una breve esposizione sistematica di dottrina e giurisprudenza sul principio di uguaglianza nell’ordinamento spagnolo, si può vedere in A. Fuenmayor, Alcance del principio constitucional de igualdad, in “Humana Iura”, 2 (1992) p. 245-266. Cfr. A. Viana, La igualdad constitucional en el régimen jurídico español sobre confesiones religiosas, in ADEE, III (1987) p. 377-382.

[14] Cfr. F. Rubio LLorente, La igualdad en la jurisprudencia del Tribunal constitucional. Introducción, in «Revista española de Derecho constitucional», 31 (1991) p. 9-36.

[15] Si potrà dire che c’è un diritto all’uguaglianza di diritti o nei diritti, all’uguaglianza del trattamento giuridico, all’uguaglianza di fronte alla legge o nella legge, però sarà sempre qualcosa di relativo. Anche alla libertà. Cfr. J. Martínez-Torrón, La objeción de conciencia en la jurisprudencia..., cit., p. 457, nota 267.

[16] Non senza ironia osserva Finocchiaro, commentando la disputa legale sull’insegnamento della religione in Italia, che “all’ombra del diritto di libertà religiosa, sono tentate tutte le possibili vie giurisdizionali, al fine di interpretare  le norme di derivazione concordataria sull’insegnamento della religione nel senso più restrittivo” (L’art. 700 c.p.c. come mezzo per la censura sui libri di testo delle scuole pubbliche; a proposito dell’insegnamento della religione cattolica, in “Giustizia Civile”, XL (1990) p. 2695).

[17] Cfr. Sundbom, Über das Gleichheitprinzip als politisches und ökonomisches Problem, Berlino 1962, p. 22.

[18] In questo senso afferma Llamazares che la giustizia è uguaglianza nella libertà (Derecho Eclesiástico del Estado, 2ª ed., Madrid 1991, p. 45-46); Cfr. S. Cotta, Primato o complementarietà della giustizia, in “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, L (1973) p. 621-632.

[19] F. Ruffini, Corso di Diritto..., cit., p. 424. E’ ben noto il passaggio del maestro italiano dove osserva con realismo che il vero principio di parità e giustizia non consiste nel dare a tutti lo stesso, bensì a ciascuno il suo, perché “trattare, come già diceva il vecchio Ahrens, in modo uguale rapporti giuridici disuguali è altrettanto ingiusto quanto il trattare in modo disuguale rapporti giuridici uguali” (Libertà religiosa e separazione fra Stato e Chiesa, in Scritti giuridici dedicati a G. Chiorini, Torino 1915, p. 272). Cfr. S. Cotta, Né giudeo né Greco, ovvero della possibilità della uguaglianza, in “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, LIII (1976) p. 331-342.

[20] Cfr. Rubio Llorente, La igualdad..., loc. cit., p. 31; J. Hervada, Diez postulados sobre la igualdad entre el varón y la mujer, in «Persona y Derecho», 11 (1984) p. 347-352.

[21] Tanto meno quando sia conseguenza naturale di una libera opzione degli interessati; per questo non penso che chi nell’esercizio della sua libertà religiosa, sceglie di non appartenere a nessuna confessione, possa considerarsi discriminato di fronte a coloro che, in quanto appartenenti ad una di esse, si situano in posizioni giuridiche attive protette dalla legge (per es. la assistenza religiosa).

[22] Questo è il caso, per esempio, della sentenza della Corte Costituzionale italiana dell’11 aprile 1989, che considerando discriminante qualsiasi attività scolastica alternativa alle lezioni di religione cattolica, ha esasperato fino all’aporía l’equilibrio libertà-uguaglianza, dando “luogo ad un problema irrisolvibile”, come dice Finocchiaro, dato che in questo contesto esagerato qualsiasi alternativa, compresa l’assenza di alternativa, dovrebbe considerarsi discriminante, “giacché la discriminazione si compie tutte le volte in cui le classi si sdoppiano, perché alcuni alunni partecipano all’ora di religione, mentre altri si allontanano per svolgere attività scolastiche d’altro genere o per darsi al dolce far niente” (F. Finocchiaro, L’art. 700..., cit., p. 2693).

[23] Il primato della coscienza, Roma 1992, p. 292.

[24] Cfr. J.M. Vázquez García-Peñuela, El objeto del Derecho Eclesiástico y las confesiones religiosas, in «Ius Canonicum», XXXIV (1994), p. 285-290; F. Onida, Uguaglianza e libertà religiosa in Italia, oggi, in ADEE, VII (1991) p. 263-269.

[25] Sulla laicità come atteggiamento personale davanti a Dio e al mondo vd . F. D’Agostino, Il diritto come problema teologico, Torino 1992, p. 91-112.

[26] “Stati –dice Dalla Torre– che tendono ad incidere con provvedimenti legislativi –e quindi attraverso la coattiva imposizione di modelli di comportamento, conseguentemente destinati a divenire diffusamente sentiti nel corpo sociale–, sopra il patrimonio morale, sulle manifestazioni ideali, sugli orientamenti di valore dei cittadini” (ibid., p. 80).

[27] A questo assioma si ispira, come è noto, il sistema didattico francese; sulla sua instaurazione e situazione attuale vd . rispettivamente G. Sicard, La laïcité de Jules Ferry, in AA.VV., La laïcité au défi de la modernité, (J.B. d’Onorio ed.), Paris 1990, p. 73-99; J.M. Lemoyne de Forges, La religion dans l’école laïque, ibid., p. 145-170. Vd. anche L. Governatori Renzoni, La separazione tra Stato e Chiese in Francia, Milano 1977, p. 239-256.

[28] Confesiones religiosas, in AA.VV., Derecho Eclesiástico del Estado español, 3ª ed., Pamplona 1993, p. 236

[29] Dalla Torre, considerando l’uso giuridico del concetto di laicità dello Stato equivoco e inutile, rileva i pericoli della sua elevazione a principio supremo, ad opera della Corte Costituzionale italiana, “nel senso che se la formale qualificazione come laico del nostro Stato costituirebbe un concreto indice del grado di secolarizzazione cui si è giunti, d’altra parte la formale affermazione del relativo principio potrebbe, negli anni a venire, rappresentare una sorta di ‘grimaldello’ con cui progressivamente espungere dal nostro ordinamento norme ed istituti, nei quali si riflette attualmente la rilevanza giuridica del fatto religioso” (Il primato..., cit., p. 37, Cfr. p. 68).

[30] Sembra essere questo l’orientamento della legislazione spagnola in materia di insegnamento della religione Cfr. C. De Diego-Lora, La enseñanza religiosa escolar después de los Acuerdos de 1992 con Federaciones religiosas no católicas, in “Ius Canonicum”, XXXIII (1993), p. 115.

Qualcosa di simile sta succedendo nella giurisprudenza constituzionale italiana che, proclamando la laicità dello Stato come un principio supremo dell’ordine constituzionale, considera la libertà religiosa come un valore integrante, in definitiva subordinato, della laicità dello Stato. Ne deriva che nella controversia riguardo alle lezioni di religione cattolica, si sia preso come punto di riferimento non il diritto dei genitori a scegliere per i loro figli l’educazione religiosa desiderata (che lo Stato deve assicurare), bensì il diritto di coloro che non desiderano questa educazione, la cui totale garanzia non consentirebbe che si possano proporre loro delle attività scolastiche alternative: la scelta rispetterebbe la loro libertà solo se consiste nell’opzione fra la lezione di religione o niente (Sent. Corte Cost., 11 aprile 1989, in “Giurisprudenza Costituzionale”, 34 (1989) p. 890-903); uno stato di non obbligo che a sua volta deve includere la facoltà di “allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola” (Sent. Corte Cost., 11 gennaio 1991, in “Giurisprudenza Costituzionale”, 36 (1991) p. 77-84). Ciò può senza dubbio essere giusto in se stesso, però nel quadro di una rigida organizzazione scolastica, come quella italiana, porta nella pratica ad emarginare l’insegnamento religioso.

Di fatto gli attori di queste cause considerano già in partenza insufficienti le menzionate decisioni, in quanto secondo loro “la collocazione dell’insegnamento nell’ambito dell’orario ordinario comporterebbe per i non avvalentisi... la riduzione di ore disponibili per la normale attività didattica”, il che costituirebbe un “vulnus alla libertà religiosa... in quanto idonea a compromettere il buon andamento dell’amministrazione mantenendo nella “inazione totale” gli affidati alla scuola per finalità educative e riducendo –in taluni casi– anche l’ambito degl’insegnamenti curriculari” (2ª sent. cit., p. 79-80). Vale a dire che la religione non deve fare parte delle normali attività scolastiche.

Se la Corte non ha accettato in pieno questa posizione, è stato più per impegno concordatario che per rispetto del diritto all’insegnamento religioso tout-court. Ma è curioso che mentre considera che “la previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione”, giacché “dinanzi all’insegnamento di religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche” (1ª sent. cit., . n 9); invece di fronte all’obiezione secondo la quale coloro che desiderano l’insegnamento cattolico possano anche sentirsi discriminati dalla loro posizione di margine alla quale di fatto hanno dato luogo le sentenze della Corte, si risponde che “le famiglie e gli studenti che scelgono l’insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall’offerta di opzioni diverse” (2ª sent. cit., n. 3).

Una dottrina che, oltre a considerare poco serie o deboli le ragioni di coloro che non desiderano partecipare all’ora di religione, contrasta con il riconoscimento che essa stessa fa del “valore formativo della cultura religiosa” pluralista e della presenza de “i princìpi del cattolicesimo nel patrimonio storico italiano” (in realtà una presenza ancora oggi maggioritaria), dei quali si dice che “concorrono a descrivere l’attitudine laica dello Stato-comunità” (1ª sent. cit., nn. 3-4), come Stato non estraneo né ostile né confessionale, “ma si pone al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini” (1ª sent. cit., n. 7).

[31] Perché una filosofia..., cit., p. 246. Cfr. J. Hervada, Derecho natural, democracia y cultura, in “Persona y Derecho”, 6 (1979) p. 203.

[32] Cfr. G. Goldberg, Church, State and the Constitution, Washington 1987.

[33] Cfr. G.V. Bradley, Church-State relationships in America, Connecticut 1987. Secondo questo autore fu il caso Everson vs. United States (1947) a segnalare un capovolgimento nella giurisprudenza in materia, quando la Corte Suprema interpretò che “the ‘establishment of religion’ clause of the First Amendment means at least this: Neither a state nor the Federal Government can set up a church. Neither can pass laws which aid one religion, or prefer one religion over another... No tax in any amount, large o small, can be levied to support any religious activities or institutions, whatever they may be called, or whatever form they may adopt to teach or practice religion... In the words of Jefferson, the clause against establishment of religion by law was intended to erect ‘a wall of separation between church and State’” (ibid. p. 1). Bradley dimostra che questa interpretazione massimalista non corrisponde alla mente dei legislatori né all’applicazione effettiva di questa clausola fino al caso citato; essa piuttosto deriva dal pregiudizio di considerare la religione come causa di conflitti sociali la cui rilevanza sociale conviene pertanto ridurre al minimo. Sulla paradossale motivazione di questa decisione Cfr. F. Onida, Uguaglianza e libertà religiosa nel separatismo statunitense, Milano 1970, p. 41 e 62-71. P. Lombardía nota che “la libertad religiosa ha sido concebida en Estados Unidos, hasta la mitad del presente siglo, con innegable amplitud... El problema se planteará mucho más tarde -en la segunda mitad de nuestro siglo-, cuando la dificultad no sea ya la pluralidad de confesiones, sino el conflicto entre creyente y ateos” (Síntesis histórica, in AA.VV., Derecho Eclesiástico del Estado español, Pamplona 1980, p. 77). Cfr. J. Martínez-Torrón, La objeción de conciencia en la jurisprudencia..., cit., p. 452-453.

[34] J.E. Wood, Jr., The U.S. Supreme..., cit., p. 410. Questa tendenza sembra oggi in via di revisione (ibid., p. 411); Cfr. R.A. Destro-G.M. Morán, Sentencias decididas por el Tribunal Supremo norteamericano sobre Libertad religiosa en 1986, 1987 y 1988, in ADEE, V (1989) p. 319-341.

[35] “Ci si deve rendere bene conto che la tolleranza non è affatto l’ovvia conseguenza del relativismo morale, come viene spesso affermato. La tolleranza si fonda invece su una ben precisa convinzione morale, una convinzione della quale si esige la validità universale. Il relativista etico può a questo proposito dire: ‘perché debbo essere tollerante? Ciascuno deve vivere secondo la propria morale. La mia morale mi permette la violenza e l’intolleranza’. Si deve già avere una certa idea della dignità di ogni uomo per trovare comprensibile l’invito alla tolleranza” (R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, Casale Monferrato 1993, p. 30). Ruffini da parte sua constata dal punto di vista storico che se in non pochi casi l’’intolleranza ecclesiastica’ si trasformó per ragioni politiche in ‘intolleranza civile’, così anche l’agnosticismo è giunto agli stessi eccessi: “Non s’è visto difatti la Rivoluzione francese dare al mondo questo spettacolo, sommamente significativo, della miscredenza diventata alla sua volta intollerante e persecutrice?” (Corso di Diritto..., cit. p. 134; Cfr. Id., Relazioni tra Stato e Chiesa, Bologna 1974, p. 154).

[36] Cfr. J. Morange, Laïcité selon le droit de la IIIe a la Ve République, nell’opera collettiva La laïcité au..., cit., p. 102-119.

[37] Il diritto come..., cit., p. 188-189. E’ la facciata di neutralità con cui si presentano, per esempio, gli organi di stampa o le scuole e i piani educativi dello Stato, quando in realtà la neutralità esigerebbe che i poteri pubblici si limitassero a intervenire, soprattutto nel campo delle risorse materiali, per rendere accesibili a tutti un’informazione e un’educazione pluralistiche e indipendenti, il che è veramente difficile quando questi poteri si considerano competenti per decidere riguardo ai contenuti di tali servizi.

[38] “On ne peut jamais oublier que li garanties accordées par la societé politique à certains actes le sont parce que l’être hereux avec d’autres et pour cette raison” (J.M. Meyer, Droit et moralité, in «Anthropotes» (1987) p. 60).

[39] Secondo Rhonheimer, Aristotele insegna che “dalla determinazione della mia felicità, da ciò quindi che rende buona e felice la vita di un singolo uomo, dipende la conoscenza di ciò che rende ‘felice’, cioè buona, giusta e bene ordinata l’insieme della polis” (Perché una filosofia..., cit. p. 236). Questo non vuol dire che la ricerca della felicità non sia qualcosa di molto personale. Tutti sappiamo che la felicità si edifica con le nostre azioni, il bene e il male sono compiuti da persone; le cose o le circonstanze possono solo farci un bene o un male relativi, siamo noi che decidiamo di amare, e nell’amore sta la felicità, che sarà vera e stabile nella misura in cui lo sia il nostro amore e ciò che amiamo. In definitiva la libertà è libertà per amare, per cercare di conseguire e godere ciò che consideriamo amabile.

[40] Vd. a questo proposito la Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae (n. 7c).

[41] A ragione osserva Papa Giovanni Paolo II come “a nessuno può sfuggire che la dimensione religiosa, radicata nella coscienza dell’uomo, ha una incidenza specifica sul tema della pace e che ogni tentativo di impedirne o coartarne la libera espressione si ritorce inevitabilmente, con gravi compromissioni, sulla possibilità dell’uomo di vivere serenamente con i suoi simili”, anzi al contrario “la fede religiosa, facendo sì che l’uomo comprenda in modo nuovo la propria umanità, lo porta a ritrovarsi pienamente, mediante il dono sincero di sé, a fianco degli altri uomini (Cfr. Id., enc. Dominum et Vivificantem, 59). Essa avvicina ed unisce gli uomini, li affratella, li rende più attenti, più responsabili, più generosi nella dedizione al bene comune” (Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1988, 8.XII.1987, n. 3). Effettivamente, la sottomissione all’autorità e l’obbedienza alle leggi trovano il loro fondamento più stabile nella coscienza religiosa, mentre le pretese di fondare sullo Stato (sulle istituzioni) i valori necessari per la convivenza (l’etica di Stato), hanno portato a risultati disastrosi. Sulla relazione cristianesimo-Stato democratico vd. J. Ratzinger, Cristianesimo e democrazia pluralista, in “Scripta Theologica”, 16 (1984) p. 815-829.

[42] Questo è così perché mentre dissentiamo sul modello teorico di società desiderabile, possiamo giudicare con maggiore accordo se i risultati tangibili delle diverse tendenze e condotte contribuiscano in maggior o minor misura a rendere più giusta, pacifica, benefica per tutti la vita in società. Nella storia accelerata che stiamo vivendo, le conseguenze sociali di un tipo di comportamento non tardano a manifestarsi.