A quarant’anni dalla Pacem in terris: i nuovi segni dei tempi

Pontificia Università Lateranense 11 aprile 2003. Seminario di studio. Sessione internazionalista: La comunità Internazionale e la Pace.

 

 

 

la libertà religiosa nella pacem in terris e la sua proiezione internazionale *

José T. Martín de Agar

Pontificia Università della Santa Croce

 

Il mio intervento vuole essere centrato sulla libertà religiosa nella Pacem in terris. Questo tema si inscrive nel più ampio discorso della notevole, e per certi versi innovativa, apertura ai diritti dell’uomo che l’enciclica compie, ma è proprio in riguardo alla libertà religiosa che essa ha un significato particolare.

L’enciclica di cui stiamo celebrando il quarantesimo anniversario è senza dubbio un’enciclica programmatica, che si progetta sull’avvenire, sulla costruzione di un mondo pacifico perché ordinato secondo il progetto di Dio.

In realtà, l’idea che la pace è solo possibile nel rispetto dell’ordine da Dio stabilito è quanto mai ricorrente nelle pronunce del magistero. Sin dagli inizi la Chiesa, fedele sposa del Principe della Pace, ha chiamato gli uomini a contrastare le passioni e le spinte che spingono all’ingiustizia e alla violenza.

E tuttavia la Pacem in terris porta in se una novità straordinaria nel modo di presentare le fondamenta di quell’ordine di convivenza, fra uomini e popoli, che è rispondente alla volontà del Creatore. Essa si colloca decisamente sul piano degli argomenti razionali, in cui si possono trovare consenzienti non solo i cristiani ma anche tutti gli uomini di buona volontà, ai quali com’è noto si rivolge il documento.

Giovanni XXIII, osserva Giovanni Paolo II, intuì che “la strada verso la pace… doveva passare attraverso la difesa e la promozione dei diritti umani fondamentali”[1]. Così egli segnala che il principio rettore di quell’ordine stabilito da Dio è “che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura” (Pacem in terris, 3).

In verità, anche qui, l’affermazione che la natura umana è fonte di diritti personali, la cui esistenza perciò non dipende da una loro concessione o accettazione da parte del potere, non è nuova nel magistero ecclesiastico. Esso ha persino anticipato gli ordinamenti civili, specie per quanto riguarda i diritti degli operai e delle loro famiglie. Eppure non si erano tratte fino in fondo le conseguenze di questa affermazione della dignità della persona umana.

Sarà Giovanni XXIII nella Pacem in terris, in seguito a quell’affermazione di principio, il primo a proporre un completo elenco dei diritti e doveri dell’uomo; fra di essi quello alla libertà religiosa, che egli definisce come “il diritto di onorare Iddio secondo il dettame della retta coscienza; e quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico” (ivi n. 6).

È la prima volta che la libertà religiosa viene proclamata da un testo magisteriale in un senso e con una ampiezza pari a quella delle dichiarazioni secolari di diritti fondamentali[2]. Questa è una delle novità più significative dell’enciclica[3], poiché la dichiarazione di questo diritto non poteva essere fatta se non nella prospettiva di diritto naturale in cui si situa l’intero documento. Prospettiva nella quale è possibile un dialogo tra la Chiesa e il mondo circa i diritti dell’uomo.

Fino alla Pacem in terris, i discorsi del magistero sui rapporti e l’atteggiamento dell’autorità politica riguardanti la religione dei cittadini, erano impostati secondo il tradizionale schema libertà - tolleranza; che vede protagonisti la verità e il bene da un lato, da l’altro l’errore e il male. I primi, da tutelare e promuovere, gli ultimi, da tollerare nella misura in cui il bisogno di evitare un maggior male o di procurare un maggior bene lo facciano consigliabile. Secondo questa netta distinzione, lo Stato cattolico riconoscerà alla vera religione e alla Chiesa la libertà e i diritti che gli spettano, mentre potrà tollerare i culti e le confessioni non cattolici in quanto la loro presenza sociale lo rendano di fatto necessario[4].

Questa dottrina di tolleranza arriva fino a Giovanni XXIII, allargandosi progressivamente ma senza essere mai superata. Persino Pio XII, coinvolto appieno nell’orientare un nuovo ordine internazionale basato sulla giustizia e la solidarietà, capace di prevenire guerre come quella che visse nei primi anni del suo pontificato, sarà ancora debitore della medesima impostazione. Egli, di fronte alla nascita (ad opera di statisti cristiani) di una Europa che, alla collaborazione in campo economico, premette il rispetto dei diritti fondamentali (con la firma a Roma della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), proporrà ancora uno schema di libertà - tolleranza.

Sulla fine del 1953 (sono appena passati 50 anni), parlando ai giuristi cattolici ribadiva:

Innanzi tutto occorre affermare chiaramente: che nessuna autorità umana, nessuno Stato, nessuna Comunità di Stati, qualunque sia il loro carattere religioso, possono dare un mandato positivo o una positiva autorizzazione d’insegnare o di fare ciò che sarebbe contrario alla verità religiosa o al bene morale… Un’altra questione essenzialmente diversa è: se in una comunità di Stati possa, almeno in determinate circostanze, essere stabilita la norma che il libero esercizio di una credenza e di una prassi religiosa o morale… non sia impedito nell’intero territorio della Comunità per mezzo di leggi o provvedimenti coercitivi statali. In altri termini, si chiede se il ‘non impedire’, ossia il tollerare, sia in quelle circostanze permesso, e perciò la positiva repressione non sia sempre un dovere… Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa. Essa mostra che l’errore e il peccato si trovano nel mondo in ampia misura. Iddio li riprova; eppure li lascia esistere… Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azioni. Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire l’errore, per promuovere un bene maggiore.

Con questo sono chiariti i due principii, dai quali bisogna ricavare nei casi concreti la risposta alla gravissima questione circa l’atteggiamento del giurista, dell’uomo politico e dello Stato sovrano cattolico riguardo ad una formula di tolleranza religiosa e morale del contenuto sopra indicato da prendersi in considerazione per la Comunità degli Stati. Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale non ha oggettivamente alcun diritto né all’esistenza ne alla propaganda, ne all’azione. Secondo: il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell’interesse di un bene superiore e più vasto.[5]

La novità introdotta dalla Pacem in terris consiste essenzialmente in un cambiamento di prospettiva, di piano: mettere la persona al centro della questione. Affermare che soggetto di diritti e doveri è l’uomo; non la verità o l’errore, il bene o il male in astratto, ma la persona; i cui diritti non dipendono dal fatto che essa si trovi o meno nella verità, ma dalla sua natura umana. Di conseguenza Giovanni XXIII afferma che “ognuno ha il diritto di onorare Iddio secondo il dettame della retta coscienza”.

Questa impostazione che oggi ci appare così semplice da sembrare scontata, talvolta quasi timida, non lo era affatto quaranta anni fa. Essa in pratica significa il riordino tra il piano della natura e quello soprannaturale: quest’ultimo deve rispettare, e in certo senso poggiare, su quello, in una continuità che non mortifica nessuno dei due ma che vuole che ogni progresso nella fede tenga conto della ragione e libertà naturali dell’uomo. Nel campo dei rapporti Chiesa-società civile dischiuse la strada ad un non facile processo di apertura che ebbe a crogiuolo il Concilio Vaticano II, già allora in cammino ma i cui documenti dovevano tutti arrivare ancora.

Di fatti, nella stessa enciclica troviamo ulteriori argomentazioni che aiutano a capirne meglio il senso della svolta operata nel campo dei diritti umani e più precisamente di quelli che attingono alla dimensione spirituale della persona. Essi si trovano nell’ultima parte del documento, dove si affronta il tema della del dialogo e la collaborazione tra cattolici e non cattolici nella costruzione dell’ordine globale disegnato nell’enciclica.

In primo luogo il Beato Giovanni XXIII ricorda come non si deva “mai confondere l’errore coll’errante, anche quando trattisi di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale-religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità” (Pacem in terris 57). Anche qui la novità risiede non tanto nella distinzione tra l’errore e l’errante, di origine agostiniana, quanto nelle conseguenze che da essa esplicitamente si traggono. Precedentemente infatti, la distinzione avrebbe richiesto dal credente un atteggiamento di caritatevole tolleranza in vista della quieta convivenza. Papa Roncalli invece pone la questione in termini di stretta giustizia: l’errante “conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona” e quindi i diritti da essa derivanti.

Ma proprio di seguito troviamo nell’enciclica un’altra distinzione, di più ampio raggio, che è come la chiave di lettura che ci permette di situarci nella mente del Pontefice.

“Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?” (ivi).

Riecheggia in queste parole il consiglio paolino ai primi cristiani di esaminare tutto e tenere ciò che è buono (1 Tes 5, 21). Nel nostro caso a cercare quel che di vero e positivo c’è nel movimento in favore dei diritti civili fondamentali ormai diffuso anche fra i cattolici, a prescindere dalle idee filosofiche e politiche in base alle quali essi sono stati proclamati. Non lasciare che le critiche per quanto giuste di quelle idee, finiscano per travolgere i semi di verità, di conformità con la natura dell’uomo, di cui sono portatrici o ispiratrici.

Ritengo che con queste affermazioni e chiarimenti il Papa abbia imboccato, due mesi prima di morire, la strada che circa i rapporti Chiesa - mondo, avrebbe continuato in seguito il Concilio Vaticano II.

Limitandoci a quanto riguarda specificamente la libertà religiosa, la Dich. Dignitatis humanae (7 dicembre 1965) avrebbe consolidato e completato, non senza difficoltà, l’opera iniziata nell’enciclica giovannea. Vorrei segnalare alcuni punti di questo consolidamento.

Il primo è la precisione, resa necessaria dagli equivoci sorti nell’aula conciliare, che la libertà  di cui si parla è “la libertà sociale e civile in materia religiosa”[6]. Da non confondere quindi -in nessun modo- con una libertà di fede all’interno della Chiesa o con una autonomia morale di fronte a Dio.

Il secondo aspetto in cui la Dignitatis humanae progredisce nei confronti della Pacem in terris è che porta fino alle ultime conseguenze l’idea che il fondamento dei diritti della persona è la natura umana. Si tratta secondo Pavan di “uno sviluppo sostanziale”[7].

Infatti, nell’enciclica la libertà religiosa viene enunciata in certo senso in forma condizionale, cioè come diritto di onorare Iddio “secondo il dettame della retta coscienza”. Così, al meno potenzialmente, l’esercizio di questa libertà potrebbe essere determinato dalla rettitudine morale del soggetto. Dando ancora spazio al criterio -tradizionalmente usato per giustificare la tolleranza nei casi concreti- che sarebbe l’ignoranza invincibile (cioè non colpevole, in buona fede) in cui il soggetto versa, a giustificare anche qui la sua libertà in materia religiosa[8].

Invece il Concilio Vaticano II affina ancora la distinzione tra gli aspetti etici e quelli giuridici riguardanti la vita religiosa degli uomini. Da un lato ribadisce che “poiché la libertà religiosa, che gli uomini esigono nell’adempiere il dovere di onorare Dio, riguarda l’immunità della coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina cattolica tradizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica chiesa di Cristo” (DH 1c). Dall’altro afferma che l’adempimento di quest’obbligo morale non può avvenire se non d’accordo con la natura umana, cioè in libertà (psicologica e di coercizione), “quindi Il diritto alla libertà religiosa non si fonda su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto a questa immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa; e il suo esercizio, qualora sia rispettato il giusto ordine pubblico, non può essere impedito” (DH 2b).

Infatti, come diritto umano la libertà religiosa “non deriva dall’onesto operare delle persone o dalla loro coscienza retta, ma dalle persone stesse, ossia dal loro essere esistenziale… È quindi un diritto che esiste in ogni persona ed esiste sempre, anche nell’ipotesi che non venga esercitato o sia violato dagli stessi soggetti a cui inerisce”[9]  Come dice un filosofo, compiere il bene o il male possono fare di un uomo una buona o una cattiva persona, ma non lo fanno diventare più o meno persona[10].

Infine, un terzo punto in cui la dichiarazione conciliare prosegue il cammino intrapreso dalla Pacem in terris, è tutto quello che riguarda la libertà delle comunità religiose, appena accennato dall’enciclica nel riferimento al culto pubblico. Il Concilio dopo aver accuratamente distinto e collegato gli aspetti interni ed esterni, individuali e comunitari della vita religiosa, si sofferma ampiamente sui contenuti della libertà religiosa delle confessioni (DH 4), e anche della famiglia “in quanto società che gode di un diritto proprio e primordiale” (DH 5).

Proiezione internazionale della Pacem in terris

La problematica fin qui trattata potrebbe sembrare tutta interna alla Chiesa; al suo travagliato cammino fino al rinvenimento (nella legge naturale) di basi dottrinali condivisibili riguardo quei diritti dell’uomo, un tempo sbandierati dalle rivoluzioni liberali ispirate all’illuminismo agnostico, indifferentista o decisamente anticlericale. Ma non è così.

La prospettiva di ordine naturale scelta dal Beato Giovanni XXIII, ha determinato, infatti, la possibilità di un dialogo più esteso e intelligibile tra la Chiesa e le altre comunità di uomini, non soltanto politiche ma anche religiose. Un dialogo, in somma, fondato sulla verità dell’uomo (e della società) che la Chiesa percepisce sicuramente alla luce della rivelazione, ma che si esprime in argomentazioni di ragione e quindi non richiede dall’altra parte la condivisione in partenza di posizioni di fede.

Per restare in tema libertà religiosa[11], la sua rilevanza per l’ordinato e quieto andamento dei rapporti fra uomini e popoli, è stata compresa con sempre maggiore profondità. Al punto che oggi (per lo meno nella nostra area culturale) si può considerare acquisito che la libertà di religione è primo fra i diritti dell’uomo, pari in campo spirituale a quello che il diritto alla vita rappresenta per l’esistenza biologica. Esso, dice Giovanni Paolo II, costituisce “il cuore stesso dei diritti umani” giacché “la religione esprime le aspirazioni più profonde della persona umana, ne determina la visione del mondo, ne guida il rapporto con gli altri: offre in fondo la risposta alla questione del vero significato dell’esistenza nell’ambito sia personale che sociale”[12]. A tale punto che pregare per la pace “vuol dire anche pregare per la libertà, specialmente per la libertà religiosa, che è un diritto fondamentale umano e civile di ogni individuo”[13].

La libertà religiosa nei concordati

Essendo divenuta principio basilare dei rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, la dottrina cattolica sulla libertà religiosa ha avuto anche un’immediata proiezione sugli accordi giuridici internazionali tra la Santa Sede e i singoli paesi. Il rispetto della libertà religiosa di tutti è la cornice entro la quale la Chiesa intende disegnare il suo particolare statuto giuridico, d’accordo con le autorità di uno Stato. Anche perché essa stessa, mentre richiede la libertà religiosa come un proprio diritto, si dichiara impegnata a tutelare lo stesso diritto per tutti (DH 6a).

Circa il ruolo del Concilio e della libertà religiosa nei concordati sono stati degli sviluppi molto interessanti, ai quali farò breve cenno in seguito.

Da parte della Santa Sede i richiami preliminari ai principi oppure ai documenti del Concilio Vaticano II[14] hanno acquistato una valenza analoga a quelli degli Stati riguardo la loro costituzione, come se avessero nella Chiesa un valore pari, ossia di costituzione formale non formulata giuridicamente[15].

Vi sono inoltre, nei preamboli degli accordi concordatari, specifici riferimenti alla libertà religiosa[16], alla Dich. Dignitatis humanae, e in seguito, soprattutto con i paesi dell’Europa Centro Orientale, si farà menzione dei principi e documenti internazionali sulla libertà religiosa[17]. Speciale menzione merita l’Accordo fondamentale con Israele (1993), nel cui primo articolo le parti, distintamente, si impegnano a rispettare il diritto alla libertà religiosa e di coscienza “nei termini in cui è definito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. Un testo di riferimento comune per definire il contenuto del diritto[18].

Anche quando in un accordo concordatario si attesta che la religione cattolica è quella della maggioranza dei cittadini, oppure viene riconosciuto il ruolo svolto dalla Chiesa nella formazione culturale e religiosa della coscienza nazionale, ciò avviene senza pregiudizio della libertà religiosa di tutti i cittadini e delle altre confessioni[19].

La libertà religiosa (e in generale i diritti umani) diventa così principio comune alle Parti contraenti che modella poi il contenuto concreto degli accordi. Con ciò i concordati si pongono ancora più strettamente sulla scia degli altri patti internazionali per i quali vige “il principio secondo il quale il rispetto dei diritti umani trascende la sovranità nazionale e non può essere subordinato a fini politici o compromesso da interessi nazionali”[20] In tale prospettiva, le parti mentre si prefiggono di definire un assetto concreto per l’esercizio della libertà religiosa di una parte della popolazione (i cattolici radunati nella loro Chiesa), intendono farlo senza pregiudizio della libertà religiosa degli altri cittadini e comunità religiose. Anzi la promozione dei diritti della persona diventa, sempre più esplicitamente, campo di collaborazione fra le parti. Cooperazione peraltro adeguata alla natura propria della Chiesa e a quelle che sono le sue possibilità reali di intervento concreto in questa materia.

Ma oltre ai riferimenti di premessa e di impegno alla collaborazione, la libertà religiosa ha inciso, in modo sempre più vistoso, nel contenuto concreto delle clausole concordatarie. In primo luogo la libertà garantita alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli trova fondamento e viene determinata dal fatto che lo Stato è tenuto a rispettare la libertà religiosa di tutti, la quale comprende l’autonomia interna, e nelle proprie attività, delle confessioni religiose. Così come abbiamo segnalato prima che la Pacem in terris supera lo schema libertà - tolleranza, si potrebbe qui dire che nel contempo essa posa le basi per accantonare l’impostazione secondo cui la Chiesa, ricevendo un trattamento favorevole da parte dei poteri civili, doveva tuttavia pagare un prezzo in termini d’interventi di stampo giurisdizionalista, e quindi di compressione della medesima libertà che il concordato per altri versi le garantiva[21].

La libertas Ecclesiae non è più un corollario della confessionalità statale, né un privilegio o concessione dello Stato, ma semplice a pratica conseguenza del comune diritto alla libertà religiosa, che tiene conto della presenza dei cattolici in un determinato paese. Gli accordi post conciliari sono sempre più espliciti in questo senso[22].

In secondo luogo la libertà religiosa gioca un ruolo quasi di limite alla cooperazione tra Stato e Chiesa, ed eventualmente al confessionismo di Stato. Tale cooperazione infatti, per quanto specifica e adeguata ai bisogni della comunità cattolica, deve rimanere sempre entro il rispetto della pari libertà degli altri e della dovuta laicità statale.

Questo si evidenzia in maniera particolare in due campi, l’insegnamento della religione e l’assistenza religiosa, nei quali la sensibilità odierna trova mancanti le formule talvolta adottate in passato nei confronti dei non cattolici. Oggi è corrente premettere che queste attività sono garantite alla Chiesa e ai cattolici nel rispetto della libertà religiosa di tutti.

Tra i primi accordi che fanno riferimento a questo tema, vi sono quelli con la Spagna del 1979. L’Accordo circa l’insegnamento premette che lo Stato “riconosce il diritto fondamentale all’educazione religiosa e ha sottoscritto patti internazionali che garantiscono l’esercizio di questo diritto”; e immediatamente aggiunge “d’altra parte la Chiesa deve coordinare la propria missione educatrice con i principi della libertà civile in materia religiosa e con i diritti delle famiglie e di tutti gli alunni e docenti evitando qualsiasi discriminazione o situazione di privilegio”[23]. Da parte sua l’Accordo su materie giuridiche mentre tutela il diritto all’assistenza nei luoghi di internamento e ricovero, aggiunge che “in ogni caso, saranno salvaguardati il diritto alla libertà religiosa delle persone e il dovuto rispetto ai loro principi religiosi ed etici”[24].

Anche l’Accordo italiano di modifica del Concordato lateranense, garantisce che l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali avverrà “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori”, senza che la scelta di avvalersi o meno di tale insegnamento “possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”[25].

Da parte sua la Santa Sede, per quanto riguarda l’insegnamento religioso, oltre che ai documenti conciliari in generale ha talvolta voluto fare specifico riferimento alla Dichiarazione Gravissimum educationis[26], il cui n. 8 ribadisce l’importanza dell’educazione morale e religiosa “tenendo conto del pluralismo esistente nella società moderna e garantendo la giusta libertà religiosa”. Di conseguenza, la Croazia garantisce l’insegnamento della religione cattolica quale espressione concreta del “diritto fondamentale dei genitori all’educazione religiosa dei figli” offendo la possibilità di scegliere tale insegnamento nel rispetto della volontà e responsabilità dei medesimi genitori e degli alunni maggiorenni[27].

Per finire, vorrei riferirmi brevemente al fatto che anche il rispetto e i rapporti interreligiosi stanno diventando obiettivi comuni alle parti e ambito di collaborazione. Infatti, la tranquillità religiosa è decisiva per la pace sociale, e da parte sua la Chiesa affida al dialogo aperto e sincero il progresso nei rapporti con le altre confessioni e nell’ecumenismo. Da qui l’impegno della Chiesa nell’Accordo slovacco, di rispettare nel processo educativo e formativo “i principi della tolleranza religiosa, dell’ecumenismo e della collaborazione come anche i sentimenti delle persone di diversa convinzione religiosa e i sentimenti delle persone non credenti” (art. 13.8). Il tema acquista tonalità particolari negli accordi del Medio Oriente, cioè con Israele e con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. In questi accordi, mentre la Chiesa ribadisce il suo rispetto per le altre religioni e i loro seguaci, le Parti si impegnano nella collaborazione per combattere ogni discriminazione, il razzismo, l’intolleranza religiosa e per favorire i buoni rapporti tra le comunità e i diritti umani[28].

Accade con i grandi cambiamenti che essi sembrano piccoli a coloro che li trovano già fatti. Ma la svolta della Pacem in terris quaranta anni fa aprì, a mio parere, una nuova forma di presenza della Chiesa dinanzi ad un mondo sempre più eterogeneo dal punto di vista culturale, etico e religioso.

Se la Chiesa è una voce autorevole dinnanzi all’umanità; se a suo nome la Santa Sede è presente nei fori internazionali per richiamare attenzione sulle esigenze etiche della dignità di ogni uomo, mi sembra che in non piccola parte si debba al modo di affrontare i problemi della convivenza inaugurato dalla Pacem in terris. Essa ha aperto una porta sino a allora appena socchiusa, dato che la distinzione fra i cattolici e ‘gli altri’ incombeva ancora in modo determinante su ambiti dove è invece la comune natura ad accostare tutte le persone. C’è un noi, un ognuno, un tutti, un ogni persona, che da allora, come non prima, associa la Chiesa con tutti coloro che sono impegnati nella lotta per il rispetto e il benessere integrale degli uomini.

La Pacem in terris ha messo in pieno i cristiani nella battaglia per la libertà e la giustizia nel rispetto dei diritti dell’uomo. Oggi la Chiesa è l’istituzione che si può considerare guida nella promozione della dignità umana, sia per universalità e varietà della sua presenza attiva sia per la continuità e ragionevolezza della dottrina che è alla base di questo impegno.

Quaranta anni dopo, il tema dei diritti umani è diventato più complesso, globale e sofisticato, anche perché la ‘gestione’ dei diritti fondamentali è divenuta in certo senso un tema di potere. Ci sono poi altri pericoli segnalati diverse volte anche dal Magistero come “la tendenza a separare i diritti umani dalle loro basi antropologiche”[29] ed anche la loro interpretazione individualistica. In effetti, c’è da chiedersi se alcune opzioni che oggi vengono presentate come diritti umani lo siano davvero, se cioè “scaturiscono immediatamente dalla natura dell’uomo”, punto di partenza dell’enciclica giovannea e fondamento di ogni diritto.



* In “La Società” (6/2003) p. 239-251.

[1] Cf. Messaggio 1 gennaio 2003, per la Giornata mondiale della pace, n. 4.

[2] Il passo in avanti riguarda anche gli altri diritti attinenti la sfera spirituale dell’uomo, per cui qualcosa di simile si potrebbe dire della “libertà nella ricerca del vero, nella manifestazione del pensiero e nella sua diffusione”, proclamati nell’enciclica (n. 5). Essa dedica il n. 49 alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, mettendone in risalto l’importanza per quanto in essa “viene riconosciuta nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani”, segnalando al contempo che “su qualche punto particolare della Dichiarazione sono state sollevate obiezioni e fondate riserve”.

[3] Su questo argomento sono importanti le riflessioni di P. Pavan, Il momento storico di Giovanni XXIII e della «Pacem in terris»: sua incidenza negli atti conciliari e nella vita della Chiesa e sua influenza nella società contemporanea, in AA.VV., “I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa”, Roma 1985, p. 149-154. Anche in «La Società» (2/2003) 287-294.

[4] Leone XIII, Immortale Dei 16; Libertas 20.

[5] Alloc. 6 dicembre 1953, Ci riesce, nn. 6 e 7.

[6] Sottotitolo della Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II.

[7] Il momento storico…, loc. cit. p. 150.

[8] La stessa distinzione fra l’errore e l’errante era usata, prima della Pacem in terris, per giustificare l’atteggiamento tollerante con le persone che si trovavano in errore invincibile o incolpevole.

[9] Giovanni Paolo II, Discorso 10 marzo 1984, ai partecipanti al V Colloquio Giuridico «I diritti fondamentali della persona e la libertà religiosa», in AA.VV., “I diritti fondamentali della…” cit., p. 9.

[10] A. Millàn Puelles, Sobre el hombre y la sociedad, Madrid 1976, p. 98.

[11] Mi limito al tema della libertà religiosa conscio che il discorso si dovrebbe tuttavia iscrivere in quello più ampio dei diritti umani, che è trova sviluppo senza precedenti nella Pacem in terris.

[12] Messaggio 1 gennaio 1999 per la Giornata mondiale della pace,. Cfr. Messaggio 8 dicembre 1980 per la Giornata mondiale della pace, n. 6; Lettera del 2 dicembre 1978 a S.E. Dr. K. Waldheim, Segretario Generale dell’ONU.

[13] Messaggio 1 gennaio 2002, per la Giornata mondiale della pace, n. 14.

[14] L’accordo con la Argentina del 10 ottobre 1966, è il primo in cui si fa riferimento ai principi del Concilio Vaticano II. Per i testi concordatari vid. José T. Martín de Agar, Raccolta di concordati 1950-1999, Città del Vaticano 2000; Id., I concordati del 2000, Città del Vaticano 2001.

[15] Ai riferimenti al Concilio si sono talvolta di recente aggiunti quelli al CIC, anche questi in certo senso paralleli a quelli degli Stati alla loro legislazione interna. Difatti, il Codice di Diritto Canonico è stato presentato da Giovanni Paolo II quale sforzo per tradurre in linguaggio canonistico la dottrina del Concilio sulla Chiesa; cf. Cost. Ap. Sacrae disciplinae, 25 gennaio 1983: EV 8/628-631 ss.

[16] Cf. Accordi del 1976 con la Spagna, del 1984 con l’Italia, del 1993 con la Polonia. Nel concordato polacco, si precisa che i documenti conciliari cui si fa riferimento sono quelli “riguardanti la libertà religiosa ed i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica”.

[17] L’Accordo giuridico con la Croazia del 1996 e l’Accordo di Base con la Slovacchia del 2000 parlano dei “principi internazionalmente riconosciuti sulla libertà religiosa”; Nell’accordo giuridico con la Lituania (2000) le parti dichiarano di aderire “to the principle of religious freedom, enshrined in international juridical instruments”; in quello culturale (2002) esse ritengono “the priciples of freedom of conscience and religion as recognised and proclaimed by the intrernational community”.

[18] Nell’Accordo con la PLO invece sarà soltanto questa a richiamarsi alla DUDU, mentre la Santa Sede riafferma il suo impegno a sostenere la libertà religiosa. In entrambi li accordi la Chiesa ribadisce inoltre il suo rispetto per le altre religioni e i loro seguaci.

[19] Cf. Colombia 1973, art. 1; .

[20] Giovanni Paolo II, disc. 3 novembre 2000, ai partecipanti alla Conferenza Ministeriale del Consiglio d’Europa e alla celebrazione del 50° anniversario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, n. 2. Sulla natura di ordine pubblico internazionale dei diritti fondamentali della persona, delle comunità e de popoli, cf. V. Buonomo, I diritti umani nelle relazioni internazionali, Roma 1997, p. 31-33, 150-153; F.C. García Magàn, Derechos de los pueblos y naciones, Roma 1998.

[21] Vedi, ad es. l’art. 4 dell’Accordo con la Croazia su questioni giuridiche, dove si afferma che proprio “nel rispetto del diritto alla libertà religiosa” cioè degli art. 40 e 41 della Costituzione croata richiamati nel preambolo, “la Repubblica di Croazia riconosce alla Chiesa Cattolica, e alle sue comunità di qualsiasi rito, il libero esercizio della sua missione apostolica…”. In maniera non scevra di realismo circostanziale l’accordo col Kazahstan esprime la mutua indipendenza e autonomia delle parti richiamandosi “ai principi di rispetto e non interferenza negli affari interni” (preambolo); su questa base poi, le parti si riconoscono mutuamente libertà nell’esercizio dei loro diritti e competenze (art. 1).

[22] Ciò appare ben chiaro negli accordi generali con i Länder tedeschi, essendo la Germania un paese dove vige la libertà religiosa e separazione tra Stato e Chiesa. Vid. il concordato con Sassonia inferiore (1965) art. 1, nonché gli Accordi con: Stato Libero di Sassonia (1996) art. 1, Turingia (1997) art. 1, Meclemburgo-Pomerania Anteriore, art. 1 (dove si dice che il Land protegge la libertà dei cattolici e della Chiesa “mediante la Costituzione e la legge”), Sassonia-Anhalt (1998) art. 1.

[23] Preambolo. Di conseguenza l’art. I stabilisce che “alla luce del principio della libertà religiosa, l’attività educativa rispetterà il diritto fondamentale dei genitori circa l’educazione morale e religiosa dei propri figli nell’ambito scolastico”.

[24] Art. IV.2. Anche nell’Accordo spagnolo circa questioni economiche, lo Stato si impegna a collaborare con la Chiesa “con assoluto rispetto del principio della libertà religiosa” (art. II.1).

[25] Art. 9.2; cf. Protocollo Addizionale, n. 5.

[26] Così nei preamboli degli Accordi croato (1996) e lituano (2000) in campo educativo e culturale.

[27] Accordo culturale, art. 1 e 2. La Lituania articola in maniera molto simile gli stessi diritti (all’educazione cattolica nel rispetto della libertà di scelta e uguaglianza religiose), includendo anche gli studenti minorenni in affidamento a istituti statali o comunali, quando la religione cattolica sia quella delle loro famiglie di origine (Accordo culturale, art. 1 e 2). Vid. anche l’Accordo con Malta sull’istruzione cattolica nelle scuole statali (1989) art. 1.

[28] Accordo fondamentale con Israele (1993), art. 2; Accordo basico con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

[29] Giovanni Paolo II, Discorso 3 novembre 2000, ai partecipanti alla Conferenza Ministeriale del Consiglio d’Europa e alla celebrazione del 50° anniversario della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, n. 3.