José T. Martín de Agar
BENI TEMPORALI E MISSIONE DELLA CHIESA
Dispense ad uso degli studenti
Pontificia Università della Santa Croce
1997
BENI TEMPORALI E MISSIONE DELLA CHIESA
© Prof. José Tomás Martín de Agar
La Chiesa come società terrena e spirituale, ha bisogno di beni materiali per compiere la sua missione, infatti anche se il Regno di Dio non è di questo mondo, in quanto vive ed opera nel mondo è soggetto ai condizionamenti della vita terrena. "Le realtà terrene e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente unite tra loro, e la Chiesa stessa si serve delle cose temporali nella misura che la propria missione richiede" (GS, 76).
Il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare, confermando il precedente magistero, quest’unione del celeste e del terreno nell’unica realtà della Chiesa pellegrinante (LG, 8), rifuggendo sia da un esagerato spiritualismo o pauperismo, sia dalla ricerca di un potere meramente terreno, fondato sull’influsso politico, economico o anche meramente umanitario: “la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che ad essa ha prefisso è di ordine religioso. Eppure da questa stessa missione religiosa scaturiscono dei compiti, della luce e delle forze, che possono servire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la Legge divina. Così pure, ove fosse necessario, a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, anch’essa può, anzi deve, suscitare opere destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosi, ad esempio opere di misericordia o altre simili” (GS, 42).
Lo spirito di povertà, che è sempre necessario, consiste soprattutto nel distacco dai beni materiali e nella consapevolezza che essi sono mezzi non fini, strumenti per il compimento di una missione religiosa.
In questo contesto va inquadrato il can. 1254, che pone le basi del diritto patrimoniale canonico. Il diritto della Chiesa all’uso di beni materiali ha la sua giustificazione e trova il suo limite in relazione all’adempimento dei fini spirituali che le sono propri: il sostentamento del culto, del clero, degli altri ministri, delle opere di apostolato e di carità, cioè delle opere di misericordia spirituali e materiali.
Il diritto della Chiesa di acquistare, possedere e amministrare i propri beni è conseguenza della libertà che deve avere per il compimento della sua missione (GS, 76; DH, 4, 13). Si tratta di un diritto nativo e indipendente, cioè un diritto del quale la Chiesa gode di per sè non per concessione di un’altra autorità, e che esercita con autonomia: secondo le proprie regole.
Di conseguenza i fedeli hanno il diritto -di fronte allo Stato (can1261)- e il dovere -di fronte alla Chiesa (can222 § 1)- di contribuire con i loro beni alle necessità del Popolo di Dio di cui fanno parte. Dovere che a seconda dei casi specifici la gerarchia può concretizzare in diversi modi (can. 1263-1264).
Queste regole interne alla Chiesa sull’acquisto, uso e gestione dei beni temporali al servizio della sua missione costituiscono il diritto patrimoniale canonico. La Chiesa è allo stesso tempo soggetto capace di possedere i propri beni e allo stesso tempo autorità competente a regolare la proprietà al suo interno.
La nuova e più profonda conoscenza che la Chiesa ha di sè stessa in seguito alla riflessione conciliare, ha indubbi influssi sul diritto patrimoniale canonico.
A.- In primo luogo, l’immagine della Chiesa come Popolo di Dio mette in evidenza la comune responsabilità e partecipazione di tutti i fedeli, legati da vincoli di carità e di comunione, alla missione della Chiesa. Il patrimonio ecclesiastico è l’insieme delle risorse economiche necessarie alla missione della Chiesa, ad incremento del quale tutti i fedeli devono contribuire (can. 222) e alla cui gestione sono interessati e possono collaborare.
B.- D’altro canto, la libertà e la responsabilità riconosciuta ai fedeli per la loro dignità battesimale, apre ampi orizzonti all’iniziativa individuale o collettiva, per la promozione e il sostegno di attività che contribuiscano alla missione della Chiesa (AA, 15, 19; can. 215). In maniera speciale, la possibilità di costituire persone giuridiche private nella Chiesa ha grande rilievo per il diritto patrimoniale (vedi infra, n. 7).
C.- La Chiesa vuole sempre che sia la carità a presiedere tutta la sua vita e che questa splenda specialmente nei rapporti di tipo economico; quindi preferisce fomentare la pratica del distacco volontario e della generosità nello scambio cristiano dei beni piuttosto che imporre stretti doveri giuridici. Si vuole evitare persino l’apparenza di un interesse materiale nella distribuzione ai fedeli dei beni spirituali (PO, 17) e, allo stesso tempo, proporre ai cristiani ed a tutti gli uomini l’esempio della povertà vissuta secondo il Vangelo (LG, 23; GS, 69; CD, 12; PC, 13).
D.- Oltre a questi orientamenti, il magistero conciliare propone altri indirizzi per la nostra materia quali:
1) l’importanza da attribuire al diritto particolare in base al principio di sussidiarietà[1];
2) la considerazione della Diocesi come principale unità economica in linea con la tradizione e la ricchezza ecclesiologica della Chiesa particolare;
3) la soppressione e la sostituzione progressiva del sistema dei benefici;
4) il ruolo delle Conferenze Episcopali;
5) il più ampio rinvio alle leggi civili e il desiderio di una più efficace amministrazione dei beni.
Queste nuove prospettive ed orientamenti sono stati tenuti presenti durante il processo di codificazione ed hanno avuto una formalizzazione giuridica, più o meno adeguata, nel nuovo diritto patrimoniale canonico: perciò dovranno essere tenuti in conto nell’interpretazione e nello studio sistematico del medesimo.
Il Codice del 1983 ha introdotto importanti modifiche in vari ambiti del diritto patrimoniale, lasciando invece altri quasi immutati. Confrontandolo con il CIC del 1917 prima facie si rileva il vuoto lasciato dalla Parte dedicata ai benefici (CIC ‘17 can. 1409-1488), mentre ora vengono citati solo una volta per stabilirne la graduale estinzione (can 1272, cfr. PO, 20). Sono invece mutati di poco i canoni relativi all’acquisto, all’amministrazione e all’alienazione di beni ed è stata semplificata la materia delle cause pie.
Sul piano tecnico-scientifico per comprendere la disciplina dei beni materiali nella Chiesa, bisogna tenere presente che si tratta di una materia con un profilo giuridico ed uno economico, ciascuno con propri principi e criteri, armonicamente articolati ma diversi.
Il profilo giuridico riguarda la realizzazione della giustizia, il rispetto dei diritti, le garanzie sul corretto uso dei beni per le finalità che sono proprie della missione della Chiesa. È di questo che ci occuperemo soprattutto in queste lezioni. Spetta invece all'economia stabilire le regole per un'adeguata gestione del patrimonio, al fine di ottenere da esso il maggior rendimento e la sua migliore applicazione alle stesse finalità della Chiesa.
Le esigenze di giustizia che si basano sul Diritto naturale o divino positivo (per es. i fini del patrimonio ecclesiastico, il rispetto della volontà del donante, ecc.) devono prevalere sui motivi di carattere economico; mentre le materie che sono, in quanto tali, indifferenti per la giustizia, dovranno essere regolate sulla base di criteri di efficacia economica opportunamente stabiliti da norme di diritto umano. Economia e diritto non soltanto non si oppongono; anzi, il giusto impiego dei beni richiede una adeguata gestione economica delle risorse.
L’espressione patrimonio ecclesiastico è utilizzata dalla dottrina canonica per designare l’insieme dei beni temporali della Chiesa; tuttavia, né il nuovo CIC né quello precedente adoperano questa nozione giuridica per riferirsi ad essi ma preferiscono fare riferimento in genere ai beni ecclesiastici o ai beni temporali della Chiesa.
Il patrimonio della Chiesa, infatti, non è riunito sotto l’unica e diretta titolarità dell’ente Chiesa universale, ma è diviso nei diversi patrimoni delle persone giuridiche ai cui fini e attività specifici sono finalizzati in maniera immediata. Come è stato ribadito, non vi è nessun bene il cui titolare diretto sia la Chiesa universale[2], perciò il can. 1257 § 1, nello stabilire quali sono i beni ecclesiastici non si riferisce solo ai beni della Chiesa universale, ma anche a quelli della Sede Apostolica (soggetto di diritto ex ipsa ordinatione divina: can. 113 § 1) e delle altre persone giuridiche pubbliche della Chiesa.
Tuttavia questa frammentazione di titolarità e di fini concreti dei beni temporali della Chiesa, non impedisce che si possa parlare, con rigore terminologico, di un patrimonio ecclesiastico; perché oltre a quelle linee di forza che potremmo definire centrifughe, vi sono altre di segno opposto che pongono tutti i beni al servizio degli stessi fini generali (can 1254 § 2) e sotto la potestà della suprema autorità ecclesiastica (can 1256). Per questo il § 1 del can. 1257 stabilisce che tutti i beni che si qualificano come ecclesiastici “sono retti dai canoni seguenti, nonché dai propri statuti”, ossia sono sottoposti ad un comune regime amministrativo di base[3]. Il § 2 dello stesso can. li distingue poi da altri beni non ecclesiastici -quelli delle persone giuridiche private- che sono regolati principalmente da norme di diritto statutario privato.
La tensione tra queste due opposte tendenze sui beni temporali della Chiesa, contribuisce a dare al patrimonio ecclesiastico una peculiare fisionomia definita da López Alarcón come "mosaico patrimoniale", figura in cui sono presenti sia l’idea di frazionamento sia di unità. Il can. 1258 è un esempio.
Questa tipica struttura del patrimonio ecclesiastico è dovuta a fattori di diversa natura -costituzionali, storici, tecnici- anche se la distinzione e l’individuazione del loro specifico influsso risulti spesso difficile, giacché hanno agito in relazione tra di loro sul patrimonio della Chiesa.
a) Fattori costituzionali. Come è stato affermato (Bidagor, Del Giudice, Hervada), le basi fondamentali del patrimonio ecclesiastico, in quanto riflettono la costituzione della Chiesa, sono di diritto divino. Infatti, la costituzione e missione della Chiesa si proiettano sul bisogno e sull’uso che questa fa dei beni materiali, ne determina le finalità e le attività per cui devono essere impiegati, nonché l’attribuzione di varie titolarità e competenze coordinate tra loro alla stregua di quanto avviene per le altre espressioni della potestà di governo.
Si pensi, ad esempio, che i bisogni materiali ai quali deve far fronte la comunità ecclesiale non rispondono a scelte umane; o al modo peculiare in cui nella Chiesa si articolano l’universale ed il particolare, e di conseguenza, le competenze del Romano Pontefice e degli Ordinari in materia patrimoniale (can. 1256, 1273 e 1276); o ai beni donati alla Chiesa considerati come liberalità dei fedeli che esigono (dagli amministratori) l’esatto rispetto della volontà dei donanti (destinazione, oneri, amministrazione, ecc.).
b) Fattori storici. Lo studio dell’evoluzione storica del patrimonio ecclesiastico parte dal dato che al principio i fedeli mettevano i loro beni a disposizione della comunità, mentre competeva al Vescovo l’amministrazione del patrimonio comune costituitosi, destinandolo ai vari bisogni (i poveri, il culto, il clero). Man mano che le chiese si moltiplicavano ognuna di esse godeva di un patrimonio per le proprie necessità e per aiutare anche le chiese sorelle, ma si aveva ancora un unico patrimonio in ogni comunità cristiana.
Come causa della progressiva disgregazione di questo unico patrimonio diocesano si è soliti segnalare, da una parte, la possibilità per la Chiesa (dopo l’editto di Milano) di costituire un patrimonio fisso di beni immobili dalle cui rendite attingere per le varie necessità, e d’altra parte l’aver assegnato quote fisse a diversi fini, che si sarebbero poi costituiti come patrimoni separati; questi fini erano normalmente: Vescovo, clero, edificio chiesa e poveri. A ciò si unì la proliferazione di conventi, parrocchie rurali e chiese proprie, ognuna con beni, rendite ed amministrazione indipendenti. Il che tuttavia non escludeva e non esclude l’idea di unità, in quanto si tratta sempre di beni destinati alle necessità della Chiesa e sottoposti alla Gerarchia, rappresentata soprattutto dal Romano Pontefice e dal Vescovo diocesano.
La comparsa di una diversità di patrimoni destinati a specifiche finalità, porta anche alla diversificazione dei soggetti titolari dei beni. Saranno gli stessi fini a venire soggettivati diventando titolari del proprio patrimonio. Il bisogno poi di distinguere questi patrimoni (e i relativi fini) dalle persone fisiche che in un certo momento li amministrano, porterà ad un notevole sviluppo tecnico dell’istituto della personalità giuridica, che darà fondamento soggettivo a entità di natura prevalentemente patrimoniale. Rinveniamo quindi, accanto ad unità economiche di base comunitaria (diocesi, parrocchia, ecc.), altre di sostrato prevalentemente patrimoniale, il cui tipico esempio è il beneficio.
Insomma, distinguere le diverse finalità porta in un primo momento alla costituzione di patrimoni separati e poi alla loro sogettivizzazione, per cui si ha una molteplicità di persone giuridiche, ciascuna di esse titolare del proprio patrimonio destinato a servire i fini specifici propri. Il diritto patrimoniale canonico è infatti un diritto che riguarda persone giuridiche (non fisiche).
c) Fattori tecnici. Tra i fattori di natura tecnica che, insieme a quelli già considerati, hanno contribuito a delineare la fisionomia del patrimonio ecclesiastico, si trova in primo luogo il concetto di proprietà sul quale si opera la frammentazione della titolarità dei beni.
La proprietà nella Chiesa nasce secondo lo schema del diritto privato romano, per cui allorché i primi patrimoni diocesani si andavano frammentando si moltiplicavano pure i titolari dei diritti dominicali (cioè di proprietà). Ma contrastando ciò con il criterio che tutti i beni ecclesiastici sono comuni (in questo senso si dice che appartengono a Cristo, alla Chiesa, ai poveri, ecc.), si rese necessario conservare un motivo di unità in questa divisione del patrimonio ecclesiastico, ricorrendo alla stessa costruzione utilizzata nell’ambito secolare: la distinzione tra il dominio eminente, che spetta al Principe su tutti i beni del suo territorio, e il dominio utile o immediato che spetta ai sudditi in quanto proprietari.
Perciò si è affermato che, nella Chiesa, al Romano Pontefice spetta il dominium eminens su tutti i beni ecclesiastici e alla persona giuridica titolare il dominio utile. Su questa distinzione troverebbero fondamento i poteri del Papa sui beni della Chiesa e questi a loro volta troverebbero il motivo della loro unità al di là della molteplicità di enti titolari.
Questa teoria del dominio diviso, coerente con le dottrine del tempo in cui fu recepita, appare oggi insufficiente per giustificare i poteri che l'autorità esercita sui beni ecclesiastici, sia perché v’è un ritorno all'idea che il diritto di proprietà è indivisibile, sia perché non è solo il Romano Pontefice che ha competenza sui beni ecclesiastici, ma anche altre autorità -soprattutto i Vescovi- che non agiscono come meri vicari o delegati del Papa, ma in virtù di potestà propria ed ordinaria.
Già il CIC ‘17 (can. 1499 § 2, 1518) fondava le facoltà del Romano Pontefice non su poteri di tipo dominicale, ma sull’autorità ed il potere supremo di cui è investito. Inoltre riconosceva ai Vescovi ampi poteri sui beni ecclesiastici situati nel loro territorio (CIC ‘17 can 1519). Il nuovo Codice basa esplicitamente i poteri supremi del Papa sulla distribuzione ed amministrazione dei beni ecclesiastici, sul suo primato di governo (can. 1273).
La dottrina ha cercato di armonizzare le facoltà dominicali delle persone giuridiche titolari dei beni e le competenze giurisdizionali dell’autorità ecclesiastica, che sono abbastanza ampie e non possono essere spiegate come semplici limiti di diritto pubblico alla proprietà privata[4].
L’articolazione dei poteri che derivano dal diritto di proprietà con quelli di giurisdizione, richiede che si tenga conto del carattere pubblico delle persone giuridiche titolari dei beni. Carattere pubblico che attiene alla loro costituzione ab auctoritate ecclesiastica, ai loro fini -munus proprium intuitu boni publici ipsis commisum-, al modo di compierli -nomine Ecclesiae- (can 116 § 1), alle loro relazioni con la gerarchia.
Perciò i beni di queste persone morali, proprio perché tali, sono beni pubblici della Chiesa, destinati ai fini e alle attività propri dell’ente titolare, che sono allo stesso tempo finalità della Chiesa. Beni la cui amministrazione e utilizzo sono soggetti -come gli altri aspetti della persona giuridica pubblica- al regime amministrativo stabilito dall’autorità competente.
Il fatto che la proprietà dei beni sia attribuita alla persona morale che li acquista legittimamente (can 1256), secondo schemi propri del diritto privato (il can 1259 rimanda ampiamente al diritto civile) entro un vasto sistema di decentramento, non impedisce che la proprietà possa essere qualificata pubblica: i beni delle persone giuridiche pubbliche appartengono ad esse, ma allo stesso tempo sono beni ecclesiastici (can 1257 § 1), ossia, beni pubblici della Chiesa. In quanto proprietà della persona -ente-, questa ha diritto di utilizzarli per i suoi fini; in quanto proprietà pubblica -della Chiesa- il loro possesso e la loro utilizzazione è sottoposta alla gerarchia, a cui spetta l’alta direzione della persona proprietaria. L’autorità del Romano Pontefice ha un particolare significato di unità, in quanto egli è anche Superiore supremo di tutte le singole persone giuridiche.
In altre parole, il dominio dei beni ecclesiastici spetta alla Chiesa e, in essa, alla persona titolare; i loro organi (della gerarchia e dell’entità titolare) hanno competenze per l’esercizio di questo dominio pubblico sui beni, ma non sono in senso stretto padroni. Il discorso quindi non è di proprietà divisa, ma di esercizio gerarchico di competenze[5].
Nell’organizzazione patrimoniale ecclesiastica vi sono tre diversi livelli in cui si riscontrano poteri amministrativi di carattere generale. In ciascuno di essi vi sono organi competenti ad intervenire nell’esercizio dei detti poteri. Questi tre livelli principali di competenza sono denominati rispettivamente amministrazione suprema (Romano Pontefice), amministrazione intermedia o mediata (Ordinario) e amministrazione immediata (organi propri della persona giuridica proprietaria dei beni)[6].
In questo schema si potrebbe inserire anche un quarto livello, quello delle Conferenze Episcopali; si tratta però, come vedremo, di qualcosa di diverso, poiché esse non hanno, per diritto universale[7], competenza generale sulla materia, e il CIC attribuisce loro solo alcune puntuali competenze di carattere normativo o di supplenza.
Il can. 1273 attribuisce al Papa la suprema amministrazione e gestione di tutti i beni ecclesiastici, recependo la tradizione canonica e basando la competenza espressamente -a differenza del vecchio can. 1518- sul primato di governo.
Risulta così definito, da un punto di vista positivo, il vecchio problema, già accennato, del fondamento dei poteri pontifici sui beni della Chiesa: non è necessario ricorrere alla teoria del dominio eminente del Papa, si tratta solo della proiezione in sede patrimoniale della piena e suprema potestà che spetta al Romano Pontefice su tutta la Chiesa (can. 331-333). In questa prospettiva, come ha messo in rilievo Hervada, il Romano Pontefice esercita la suprema amministrazione non come organo supremo di una superstruttura, ma come organo capitale di ogni persona morale, in forza dei suoi poteri episcopali immediati[8].
Si possono enumerare differenti poteri del Romano Pontefice in materia patrimoniale, anche se ci possono essere molti altri in quanto egli è titolare della potestà suprema:
- In primo luogo egli esercita la sovranità della Chiesa, la quale ricade sia su tutte le persone giuridiche in diritto canonico, sia sul patrimonio ecclesiastico. In virtù di essa è sua competenza organizzare e regolamentare la proprietà nella Chiesa. In questo senso deve essere letto il can. 1256, che subordina alla suprema autorità del Papa l’esercizio del diritto di proprietà che spetta alle persone giuridiche canoniche sui beni da loro legittimamente acquistati; il cui uso e godimento, per quanto riguarda sia i fini sia le modalità devono essere sempre consoni con la natura e missione della Chiesa.
- Parimenti tocca al Romano Pontefice esercitare e regolare la potestà fiscale della Chiesa, in base alla quale possono essere richiesti ai fedeli i contributi che siano necessari per i fini istituzionali della stessa.
- Infine, come si è detto, egli “è il supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici” (can. 1273) in quanto il suo primato di governo lo costituisce organo supremo di qualsiasi persona giuridica pubblica.
Ordinariamente il Papa esercita queste competenze con atti di natura normativa (stabilendo il regime legale disciplinante l’amministrazione dei beni ecclesiastici) e giudiziaria. Il Romano Pontefice però può anche intervenire in modo diretto e con atti concreti nell’amministrazione dei beni di qualsiasi persona giuridica pubblica, limitando o escludendo le competenze degli organi inferiori (López Alarcón). Di fatto, come vedremo, per certi atti di amministrazione straordinaria è prevista la previa licenza della Sede Apostolica.
L’amministrazione mediata o intermedia spetta generalmente all’Ordinario al quale è soggetta la persona giuridica (can. 1276). Il CIC ‘17 (can. 1519) attribuiva questi poteri e facoltà all’Ordinario del luogo per i beni situati sul suo territorio. Il Codice vigente ha adottato un criterio più flessibile ed adeguato alla realtà, sostituendo la ratio loci che vincolava beni concreti in base alla situazione spaziale[9], con la ratio subiectionis basata sulla sottomissione gerarchica del soggetto titolare dei beni al proprio Ordinario.
In molti casi l’Ordinario al quale è soggetta la persona morale è l’Ordinario locale e, più concretamente, il Vescovo diocesano. Nel caso degli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica di diritto pontificio clericali l’Ordinario è il Superiore maggiore (can. 134 § 1).
Non vi è nessun canone che attribuisca all’Ordinario in modo generale la suprema amministrazione e gestione dei beni delle persone giuridiche a lui soggette, in modo simile a come invece dispone il can. 1273 a favore del Romano Pontefice. Però nel CIC vi sono attribuzioni di competenze, generali e specifiche, a favore dell’Ordinario, sufficienti per poter affermare che egli è anche amministratore dei beni ecclesiastici di tutte le persone morali affidate alla sua responsabilità[10].
Innanzitutto il can. 1276 stabilisce le competenze generali dell’Ordinario: vigilanza ed organizzazione. La vigilanza ha come fine non solo di curare che siano osservati i principi generali dell’amministrazione di beni nella Chiesa (conservazione, evitare rischi e guadagni eccessivi, congruenza con i fini, adempimento di volontà, ecc.), ma tende anche, in maniera più immediata, a garantire l’adempimento delle leggi universali, particolari e peculiari che riguardano la gestione economica di ogni persona giuridica (§ 1). Perciò l’Ordinario ha competenza regolamentare, per organizzare mediante istruzioni, l’amministrazione di beni nell’ambito della sua giurisdizione (§ 2).
Questi poteri includono l’intervento diretto dell’Ordinario in caso di negligenza degli amministratori immediati, ed anche la loro nomina se questa non è prevista altrimenti (can 1279). Spetta anche al Vescovo diocesano stabilire, in via suppletiva, quali atti debbano considerarsi o meno di ordinaria amministrazione per le persone a lui soggette (can 1281 § 2), facoltà che gli consente di riservarsi di intervenire negli atti che ritiene opportuno. La legge, la consuetudine o gli statuti possono inoltre attribuire all’Ordinario competenze più ampie.
Oltre a queste facoltà generali gli Ordinari hanno competenze specifiche di controllo: autorizzare gli atti di amministrazione straordinaria (can 1281 § 1) e le liti nel foro civile (can 1288), ricevere il giuramento degli amministratori (can 1283, 1º). Spetta anche agli Ordinari dare il consenso per destinare gli utili (can 1284 § 2, 6º), ricevere il rendiconto annuale (can 1287 § 1), concedere licenza e stabilire requisiti per alcune alienazioni (can. 638 § 4 e 1292 § 2), decidere sul reclamo giudiziario contro le alienazioni illegittime (can 1296). L’Ordinario è inoltre l’esecutore di tutte le pie volontà (can 1301), ed esercita tutte le facoltà attribuitegli dal diritto per lo svolgimento di questo incarico (can. 1299-1310).
c) La Conferenza Episcopale
Il Codice attribuisce alle Conferenze Episcopali diverse competenze in materia economica, anche se non così numerose ed ampie come apparivano nei primi schemi del CIC. Si tratta soprattutto di dare unità ad alcuni aspetti della gestione economica che richiedono un intervento su scala sovradiocesana. Queste attribuzioni non definiscono una competenza generale, per cui non hanno una consistenza sufficiente per affermare che vi sia un nuovo livello nell’amministrazione dei beni ecclesiastici[11]. Ciò nondimeno spetta alle Conferenze l’amministrazione intermedia delle persone giuridiche che erigono e sono a loro soggette (ad es. associazioni o fondazioni pubbliche di ambito nazionale: cfr. can. 319).
Le competenze concrete che nel Libro V sono attribuite alle Conferenze dei Vescovi sono soprattutto di carattere normativo, non di gestione diretta -tranne quella sui propri beni- né di controllo o vigilanza. Esse sono:
a) stabilire, d’accordo con la Santa Sede e con la sua approvazione, le norme in base alle quali sopprimere gradualmente i benefici (can 1272).
b) curare che sia organizzata la previdenza sociale in favore del clero (can 1274 § 2).
c) dettare norme sulla riscossione delle offerte (can 1262), sulla richiesta di elemosine per fini pii (can 1265 § 2) e sulle locazioni (can 1297).
d) stabilire quali atti sono di amministrazione straordinaria nella gestione del patrimonio diocesano (can 1277).
e) fissare i valori minimi e massimi, entro i quali gli atti di disposizione richiedono certi requisiti e cautele (can. 1292 e ss.).
Costituiscono la categoria dei beni ecclesiastici tutti i beni che appartengono ad una persona giuridica pubblica della Chiesa (can 1257 § 1). Sono esclusi tutti gli altri beni, sia che appartengano ai fedeli individualmente che a persone giuridiche private.
Come afferma López Alarcón, la condizione ecclesiastica di un bene deriva dalla condizione del soggetto che ne è titolare[12]. Questa titolarità è, allo stesso tempo, la via attraverso la quale i beni vengono assegnati a fini specifici -quelli della persona proprietaria- che sono un aspetto concreto delle finalità generali del patrimonio ecclesiastico (can 1254 § 2).
Abbiamo già detto che nessun bene ha come titolare diretto la Chiesa universale, ma tutti i beni delle persone giuridiche pubbliche sono beni della Chiesa. Qualcosa di analogo si può affermare per i fini: difficilmente si troverà un patrimonio concreto destinato alle finalità generali della Chiesa, sì invece ai fini e alle attività specifici della persona titolare e, proprio perciò rientrano nei fini che il can. 1254 § 2 stabilisce per i beni temporali della Chiesa, senza che possano essere posti come tali al servizio di interessi particolari (PO, 17).
I beni ecclesiastici sono soggetti al diritto amministrativo. Le norme che integrano questo regime sono indicate nel can. 1257 § 1: il Libro V del Codice (e altri canoni[13]) e gli statuti propri della persona giuridica titolare. Ad essi bisogna aggiungere le norme e le istruzioni emanate dalle Conferenze Episcopali e dagli Ordinari nell’esercizio delle loro competenze[14].
I beni ecclesiastici possono essere di tutti i tipi contemplati dal diritto: mobili ed immobili, corporali o incorporali, fungibili o non; la Chiesa non ha una propria classificazione. Tuttavia, hanno rilevanza per il diritto della Chiesa alcuni determinati tipi di beni: le cose sacre (res sacrae) e quelle preziose (res pretiosae).
Sono cose sacre quelle destinate al culto divino con la dedicazione o benedizione liturgica (can 1171). Possono essere luoghi (can 1205) o oggetti. La stessa considerazione giuridica -come osserva Mostaza- hanno altri luoghi ed oggetti destinati in modo permanente al culto, con licenza dell’autorità o di fatto, anche se non sono stati benedetti (can. 1223, 1224, 1226, 1229).
Per il fatto di essere sacre le cose destinate al culto non diventano beni ecclesiastici, ma lo saranno o meno a seconda di chi sia il loro proprietario. Ciò che comunque rileva è che la loro relazione con il culto le attribuisce una peculiare dignità nella Chiesa, dignità che il diritto canonico si propone di tutelare, anche di fronte alla legge civile, poiché la disciplina del culto divino spetta esclusivamente all’autorità ecclesiastica.
Lo statuto proprio delle res sacrae prevede soprattutto la proibizione di usarle per usi profani (can. 1171, 1210, 1269) e la sottomissione alla disciplina stabilita dall’autorità ecclesiastica, riguardante la degna installazione, conservazione e utilizzazione dei luoghi e beni destinati al culto (can. 1171 e 1205 e ss.). In questo senso la condizione sacra di un bene implica per esso certi vincoli di diritto pubblico alla proprietà, (anche privata)[15].
Un’ulteriore misura per proteggere questi beni è stabilita nel can. 1269, secondo il quale le res sacrae che appartengono ad una persona giuridica pubblica della Chiesa non sono usucapibili dai privati ma solo da un’altra persona giuridica pubblica ecclesiastica. Si evita così che escano dal patrimonio ecclesiastico, con una conseguente maggiore garanzia della loro effettiva ed adeguata utilizzazione per il culto.
Sono cose preziose quei beni ecclesiastici che hanno un notevole valore per l’arte, per la storia, per la materia, o anche semplicemente per il culto e la venerazione rivolta loro (can. 1189, 1190, 1292 § 2). A differenza delle cose sacre, siamo qui davanti a un tipo di beni ecclesiastici, particolarmente tutelati dalla legge canonica.
La qualità preziosa di un bene non può essere valutata solo in base al valore materiale o economico, in quanto bisogna tenere presente tutti gli altri motivi che lo rendono prezioso nella Chiesa: i riferimenti al culto e alla venerazione popolare e la concreta considerazione degli ex voto come beni preziosi, testimoniano una sensibilità del legislatore che supera ovviamente i meri criteri economici. Perciò riteniamo che nel concetto di beni preziosi possano essere inclusi, come una specie di essi, i cosiddetti beni culturali (can 1283, 2º).
Dal momento che i beni preziosi costituiscono una categoria di beni ecclesiastici, ad essi si applica il regime amministrativo patrimoniale generale e, inoltre, alcune norme specifiche che tendono a tutelarne la proprietà ecclesiastica e la loro adeguata conservazione e utilizzazione. In concreto le norme del codice relative a questi tipi di beni stabiliscono: a) termini speciali di prescrizione, diversi da quelli della legge civile: cento anni se appartengono alla Sede Apostolica e trenta se sono di un’altra persona giuridica pubblica (can. 197 e 1270); b) un loro inventario differenziato (can 1283, 2) ; c) la necessità dell’autorizzazione della Santa Sede per la loro valida alienazione (can 1292 § 2)[16].
La novità nel Codice latino dell’introduzione delle persone giuridiche private avrà ampie ripercussioni nel diritto canonico, soprattutto quando sarà compiuta un’adeguata elaborazione di questa figura, come risultato dell’attività di questi soggetti giuridici e delle soluzioni normative, giurisprudenziali e dottrinali che saranno date ai vari problemi[17].
Il loro trattamento in campo patrimoniale riflette il modo in cui questi soggetti sono concepiti e disciplinati nel CIC; caratterizzati fondamentalmente in opposizione alle persone giuridiche pubbliche[18].
Già Perlado, proponendo le basi del nuovo diritto patrimoniale canonico, aveva fatto presente l’opportunità di distinguere il patrimonio ecclesiastico da altri possibili patrimoni ecclesiali[19]. In effetti, il sostentamento del culto, del clero e delle opere di apostolato e di carità sono i fini esclusivi del patrimonio della Chiesa nel senso che è lecito impiegarlo solo per queste finalità; però queste finalità non sono esclusive nel senso che non ci possano essere nella Chiesa dei patrimoni privati destinati a collaborare al loro conseguimento. Questi sono i beni delle persone giuridiche private.
Durante l’elaborazione del Codice vi furono incertezze e contrasti per stabilire la natura ecclesiastica (cioè pubblica) o meno dei beni delle persone giuridiche private. In un primo momento si assunse come punto di partenza la condizione ecclesiastica (cioè canonica) di tutte le persone giuridiche, pubbliche e private, e si concluse che tanto i beni delle une quanto quelli delle altre erano da considerarsi beni ecclesiastici, anche se gli venivano poi applicati regimi giuridici differenti[20].
Però già nello Schema del 1977, profilandosi con maggiore chiarezza la differenza tra persone pubbliche e private (queste non agiscono a nome della Chiesa), ci si rese conto che la qualificazione di ecclesiastica non è univoca: in senso stretto lo sono solo le persone giuridiche pubbliche. Si scelse allora di non applicare la denominazione di ecclesiastici ai beni di nessuna delle due categorie di persone giuridiche, conservando solo la diversità di regime amministrativo tra gli uni e gli altri. Si lasciava quindi non definito quali beni si dovessero considerare ecclesiastici (Schema ‘77, can. 15)[21].
Nello Schema del 1980 (can 1208) viene accolta pienamente, in campo patrimoniale, la distinzione tra persone giuridiche pubbliche e private: i beni delle prime sono ecclesiastici, quelli delle seconde no; e così è sancito nel vigente can. 1257.
La differenza tra gli uni e gli altri è conseguenza della diversa condizione giuridica dei loro titolari e quindi della diversa natura dei rispettivi patrimoni. I beni delle persone giuridiche private non sono beni ecclesiastici, ossia, non sono beni pubblici della Chiesa, sono beni privati[22], destinati a fini ecclesiali secondo la natura del soggetto titolare.
La loro relazione di dipendenza con l’autorità ecclesiastica è limitata al diritto-dovere di vigilanza che questa ha, al fine di assicurarne l’effettiva utilizzazione secondo i fini della persona giuridica cui appartengono (can 325 § 1). C’è una certa somiglianza con ciò che avviene in ambito civile con le associazioni e le fondazioni private d’interesse pubblico. Per il resto la loro amministrazione e il loro impiego non sono regolati dal diritto amministrativo patrimoniale (Libro V), ma dagli statuti della persona titolare.
Ci troviamo pertanto davanti ad una categoria di beni che determinano nella Chiesa (nel diritto canonico) rapporti di proprietà privata e che potremmo denominare convenzionalmente, seguendo Perlado, beni ecclesiali.
Si apre così una nuova via per la quale i fedeli possono aiutare con i loro beni le necessità della Chiesa, senza che essi diventino beni pubblici (ecclesiastici). Mezzi materiali destinati a fini d’interesse sociale (ecclesiale), la cui gestione però non è attribuita -né direttamente né indirettamente- all’organizzazione ufficiale della Chiesa: questa deve solo garantirne il buon fine.
In questa materia è opportuno distinguere due aspetti, collegati ma diversi: le fonti degli introiti, sistemi di finanziamento o di raccolta di mezzi; le vie o modi giuridici di acquistare la proprietà nel diritto canonico, che sono i mezzi giusti di diritto naturale e positivo (can. 1259 e 1290)[23].
Nell’ambito del primo degli aspetti menzionati studieremo i sistemi che nel CIC sono previsti per concretare l’obbligo generico dei fedeli di aiutare la Chiesa (PO, 20, can. 222 § 1)[24].
Bisogna premettere che la Chiesa preferisce che i fedeli contribuiscano volontariamente a sostenere la sua attività. E’ scomparso ogni riferimento alle decime e alle primizie alle quali faceva riferimento il can. 1502 del CIC ‘17. Tuttavia la Chiesa non rinuncia al suo potere fiscale originario sui fedeli, in forza del quale può richiedere loro contributi obbligatori proporzionati. Questa potestà di esigere rimane infatti affermata nel can. 1260 ed è attuabile secondo il can. 1263. Semplicemente si ritiene più consono alla tradizione, alla sensibilità attuale, e alla condizione di figli -prima che di sudditi- dei fedeli (cf. Mt 17, 25-27), appellarsi in primo luogo alla loro responsabilità[25].
In base a queste premesse troviamo che vi sono due modi principali di riscuotere dai fedeli entrate per il patrimonio ecclesiastico: le offerte volontarie ed i contributi obbligatori. Nell’ambito di ciascuno di questi modi vi sono però delle gradazioni, essendo comprese alcune figure che possono essere considerate intermedie come le tasse.
In questo concetto generale sono inclusi tutti gli apporti dei fedeli di tipo volontario, ossia, che non rispondono al compimento di un obbligo strettamente giuridico e definito (solutio, pagamento).
Come regola generale, le offerte fatte dai fedeli per un fine determinato da loro devono essere destinate a questa finalità (can 1267 § 3): il rispetto della volontà del donante è, come si è detto prima, un principio del diritto patrimoniale.
Si possono distinguere varie specie di offerte, anche se la terminologia è molto imprecisa. Le più importanti sono:
1.- Le collette o questue, alle quali si riferisce il can. 1262 (subventiones rogatas). La loro caratteristica -come dice López Alarcón- sta nel fatto che sono una risposta dei fedeli ad una richiesta della Chiesa[26], a collaborare ad una finalità determinata (cfr. can. 264 § 1, 791, 3º e 4º). Di solito questi contributi si raccolgono in occasione della Messa dei giorni festivi, di qui la norma del can. 1266.
In base al can. 1262, le collette si devono realizzare secondo le norme stabilite dalla Conferenza Episcopale. La portata di questa norma è difficile di stabilire, si può affermare che la Conferenza episcopale può regolare in forma generale tutte le collette, non soltanto quelle a livello nazionale. Non è invece attribuita alla Conferenza la competenza sull’amministrazione o distribuzione del raccolto, ciò spetta in ogni caso agli enti beneficiari o portatori dei fini per i quali è stata fatta la questua: la diocesi, la parrocchia, il seminario, ecc. (salvo in caso che la colletta sia destinata alla stessa Conferenza o ad opere da essa dipendenti). In ogni caso si dovrà tener conto del diritto particolare di ogni nazione.
Il Codex si riferisce poi espressamente alla colletta in favore delle missioni nel can. 791, 3º.
2.- Richiesta di elemosine. Sono promosse da persone private (anche se in favore di un’istituzione pubblica). Il can. 1265 § 1 esige per poter chiedere elemosine due licenze -quella dell’Ordinario proprio e quella dell’Ordinario del luogo- onde evitare discordie, abusi e scandali. La Conferenza Episcopale può inoltre stabilire norme generali che siano vincolanti anche per i religiosi mendicanti (can. 1265 § 2).
3.- Offerte spontanee. Sono quelle che i fedeli elargiscono di propria iniziativa, senza rispondere ad una richiesta concreta e circostanziata. Sono incluse in questo capitolo le elemosine manuali, le quali si presumono fatte alla persona giuridica quando chi le riceve in qualche modo la rappresenta, secondo il can. 1267 § 1.
Poiché si tratta di donazioni, per il loro perfezionamento si richiede che esse vengano accettate dal donatario, come elemento essenziale del contratto. L’accettazione non riguarda soltanto i beni donati, ma anche il fine, le condizioni e i modi che il donante abbia apposto alla donazione. Quindi chi le accetta è obbligato a rispettarle. Per questo motivo l’accettazione di una donazione è regolata, nel can. 1267 § 2, in due modi diversi, a seconda che si tratti di una donazione pura, oppure di donazione con qualche condizione od onere. Vediamo:
Come regola generale le donazioni pure (cioè senza nessuna condizione o gravame) si devono accettare e per rifiutarle, a nome di un ente pubblico, si richiede una giusta causa e, se sono di grande valore, è anche necessaria la licenza dell’Ordinario. Invece, quando la donazione è modale o condizionata, la licenza dell’Ordinario è richiesta per accettarla. Queste precauzioni si spiegano per il danno che possono recare alla persona donataria il rifiuto di beni liberamente donati o l’accettazione di oneri il cui adempimento non sia compensato dal valore della donazione (cfr. can. 1304)[27].
4.- Offerte in occasione di servizi pastorali. Corrispondono agli antichi diritti di stola e sono offerte che si chiedono ai fedeli in occasione dell’amministrazione di alcuni sacramenti e sacramentali (battesimo, funerali, benedizioni, ecc.). Non sono tributi, né rappresentano un corrispettivo dei servizi ricevuti, perciò si utilizza l’espressione «in occasione di» e non altre che potrebbero indurre a pensare ad una retribuzione o -peggio- ad un commercio di beni spirituali, e cioè ad una simonia. Di conseguenza il corrispondente servizio pastorale non può essere negato a coloro che in tutto o in parte non possono dare le offerte previste (can. 848 e 1181) o addirittura rifiutano di farle.
Compete alla riunione dei Vescovi della provincia fissare la somma dell’offerta che si deve chiedere ai fedeli (can 1264). Le quantità fissate indicano il massimo che si può e si deve chiedere, essendo liberi i fedeli di dare di più o di meno
Laddove i servizi pastorali, occasione di queste offerte, siano le cosiddette funzioni parrocchiali del can. 531, come spesso accade, le offerte si intendono indirizzate alla parrocchia -tranne che risulti una volontà contraria- e non al parroco come stabiliva il can. 463 § 3 del CIC ‘17. Questo anche quando la funzione sia stata esercitata da un chierico che non è al servizio della parrocchia. Il vescovo deve stabilire la destinazione di queste offerte e provvedere alla retribuzione dei chierici che svolgono funzioni parrocchiali (can. 531 e 551).
Quando invece queste funzioni sono realizzate legittimamente in una chiesa diversa dalla parrocchia, sembra che le offerte si debbano destinare -in tutto o in parte- a questa chiesa, almeno quando queste funzioni sono svolte su incarico dell’Ordinario del luogo a norma del can. 560, o per volontà dei fedeli (cfr. per es. can. 1115 e 1177).
Un tipo particolare di queste offerte, che ha tratti caratteristici propri ed un regolamento specifico e dettagliato, sono le offerte delle Messe, di cui trattano i can. 945-958. A riguardo bisogna brevemente rilevare che:
1) Sono offerte che possono ricevere sia i sacerdoti personalmente che le persone giuridiche, assumendo l’obbligo di celebrare o far celebrare la Messa per l’intenzione del donante. Quindi non sempre si tratta di beni ecclesiastici, dipendendo ciò da chi le riceve. Ma poiché riguardano il culto eucaristico e il sostentamento del clero e delle opere, la autorità ecclesiastica ha stabilito le norme opportune.
2) Di regola deve applicarsi una Messa diversa per ogni stipendio ricevuto (can 948); in certi casi sono però autorizzate le messe dette plurintenzionali, ma sempre con l’assenso dei donanti[28].
3) Si può ricevere uno stipendio per ogni Messa celebrata, non però per una seconda Messa concelebrata nello stesso giorno (can 951 § 2).
4) Il celebrante può far sua soltanto la somma di uno stipendio di Messa al giorno (eccetto il giorno di Natale). Gli altri stipendi dello stesso giorno li dovrà destinare ai fini prescelti dal proprio Ordinario, o dall’Ordinario del luogo se si tratta del parroco o dei suoi vicari [29].
1.- Le tasse. Sono oneri economici che devono adempiere coloro che chiedono il compimento di un atto di potestà (licenza, dispensa, processo, certificazioni). Sono amministrative e giudiziarie, secondo la natura dell’atto e dell’organo.
La natura delle tasse è quella di una sorta di controprestazione, per il beneficio personale ricevuto da un’atto dell’organizzazione ecclesiastica, anche se la Chiesa non rifiuta di compiere la sua attività amministrativa a favore di chi non può pagarle in tutto o in parte.
Il pagamento deve essere versato all’ente amministrativo che realizza l’atto di potestà richiesto: la Santa Sede, la diocesi, la parrocchia, il tribunale, ecc. I rescritti della Santa Sede concessi in forma commissoria, ossia, la cui esecuzione è affidata ad un organo inferiore (can. 37, 69 e ss.), comportano anche il diritto di chiedere tasse a favore dell’esecutore.
Le tasse amministrative sono fissate in ogni provincia dall’assemblea dei Vescovi e devono essere approvate dalla Santa Sede (can 1264, 1º). Le tasse giudiziarie sono fissate, per ogni tribunale, dal Vescovo da cui esso dipende (can 1649 § 1).
2.- I tributi. Sono obbligazioni pecuniarie imposte dall’autorità ai fedeli senza una controprestazione concreta e diretta a loro favore. In ciò si distinguono dalle tasse e dalle offerte fatte in occasione di servizi pastorali.
Come abbiamo detto, l’attuale orientamento della normativa ecclesiastica tende a considerarli un mezzo secondario di finanziamento e, in un certo senso, sussidiario, da adoperarsi solo quando le offerte volontarie non siano sufficienti. Questo non significa che l’imposizione dei tributi non sia consono alla natura sociale della Chiesa, poiché costituisce pur sempre l’applicazione strettamente giuridica dell’obbligo generico e fondamentale dei fedeli di sovvenire alle necessità della Chiesa (can 222 § 1).
Nel CIC sono regolati solo tre tributi (ordinario, straordinario e seminaristico), ma è anche previsto che ve ne possano essere altri basati sul diritto particolare (can 1263 in fine)[30].
I tre tributi del CIC hanno alcune caratteristiche comuni: a) sono oneri la cui effettiva imposizione è competenza del Vescovo diocesano, che dovrà legiferare opportunamente; b) di tipo generale: non possono essere imposti a singoli soggetti; c) diocesani: la determinazione, i soggetti, la riscossione e la finalità sono circoscritte a questo ambito; d) l’imposizione tributaria deve essere sempre moderata e proporzionata alla capacità economica del soggetto passivo. La moderazione implica che deve essere calcolata in base alle necessità reali della diocesi ed a quelle delle persone soggette, per non impedirne il conseguimento dei fini. e) Il Codice li riferisce agli introiti dei contribuenti, il che configura i tributi come imposte sul reddito; non è quindi previsto che si possano stabilire imposte sul patrimonio delle persone obbligate.
Ognuno dei tre tributi ha poi le seguenti caratteristiche peculiari:
a) Il tributo ordinario diocesano, ha come precedente immediato quello che nel CIC ‘17 (can 1504) si denominava il ‘cattedratico’. È concepito nel can. 1263 come un contributo generale, fisso, imposto per le necessità della diocesi. Ne sono soggetti passivi le persone giuridiche pubbliche sottoposte alla giurisdizione del Vescovo[31]. Nell’ambito di queste norme, il Vescovo deve stabilire, nella legge o decreto generale corrispondente, gli altri termini legali del tributo: periodicità, scadenze, destinazione della somma raccolta (nell’ambito delle necessità diocesane), calcolo della quota impositiva proporzionale al reddito, modalità di pagamento, esenzioni, ecc., sentito il parere del consiglio degli affari economici e del consiglio presbiterale.
b) Il tributo straordinario diocesano, trova i suoi precedenti nel subsidium caritativum del can. 1505 CIC ‘17. È un contributo previsto per i casi in cui la diocesi abbia gravi necessità economiche. Si tratta di un’esazione straordinaria, che non può assumere carattere stabile[32].
Le condizioni generali (moderato, proporzionale, parere dei consigli economico e presbiterale) sono le stesse del tributo ordinario. Variano i soggetti passivi poiché il tributo straordinario riguarda le persone giuridiche private e le persone fisiche soggette alla giurisdizione del Vescovo[33]. La disposizione diocesana che lo istituisce, dovrà determinare, entro i limiti della legge universale, gli altri elementi del tributo.
c) Il seminaristico. La sua origine risale al Concilio di Trento ed è l’unico che è passato dal vecchio al nuovo Codice senza notevoli variazioni (cf. CIC ‘17, can. 1355 e 1356): perciò ha una regolamentazione più dettagliata (can. 264).
Sono soggetti passivi di questo tributo tutte le persone giuridiche (pubbliche e private) che hanno sede nella diocesi: anacronisticamente si segue un criterio strettamente territoriale, prescindendo dalla dipendenza dal Vescovo nelle altre materie. Deve essere commisurato in base alle necessità reali del seminario non coperte con altri mezzi: questa sembra essere la ratio della norma, specie se si tiene presente il vecchio can. 1356 § 2, da cui deriva il nuovo can. 264. Seguendo la normativa tradizionale sono esenti da questo tributo quei soggetti che si sostengono soltanto di elemosine, oppure che devono sopportare oneri simili a quelli del seminario (noviziati, studentati, ecc.).
I modi o i sistemi di finanziamento esaminati, di per sè non nuovi, rappresentano tuttavia un rinnovamento del modo tradizionale di sostentamento del clero, se messi in relazione ad un aspetto importante della nuova organizzazione patrimoniale ecclesiastica: la tendenziale abolizione del sistema dei benefici.
Per beneficio si intende tecnicamente un capitale o insieme di beni (mobili o immobili) le cui rendite si destinano al sostentamento del titolare di un ufficio ecclesiastico; di solito il beneficio veniva eretto come persona giuridica a se stante di base patrimoniale[34].
Secondo i Padri conciliari, il sistema dei benefici toglieva importanza all’ufficio e non rispondeva all’equità dando luogo a ingiuste disuguaglianze tra i chierici (PO, 20). Allo stesso tempo condizionava la libertà del Vescovo nel conferimento degli uffici diocesani (CD, 28). Perciò il Decreto Presbyterorum ordinis stabilì che «bisogna abbandonare il cosiddetto sistema dei benefici o almeno riformarlo», e che la remunerazione dei presbiteri che servono la diocesi «deve essere sostanzialmente la stessa per tutti quelli che si trovano nelle stesse circostanze» (n. 20). Il M.P. Ecclesiae Sanctae, in attuazione del Concilio, concesse ai Vescovi la possibilità di «provvedere ad un’equa distribuzione dei beni, anche delle rendite dei benefici» (I.8b).
Il nuovo Codice si occupa in una sola occasione (can 1272) dei benefici (il vecchio dedicava ad essi 80 can.), per stabilirne la progressiva abolizione; questo can. può essere considerato, almeno in linea di massima, una norma transitoria, di passaggio tra l’antico e il nuovo sistema. Tenendo presente l’esperienza postconciliare, il can. 1272 stabilisce che sia la Conferenza episcopale a emanare, d’accordo e con l’approvazione della Santa Sede, le norme di diritto particolare tese a compiere questa transizione. I punti di questo passaggio sono chiari: abbandono del sistema dei benefici per giungere ad un sistema diocesano di retribuzione del clero[35].
Si tratta della sostituzione del sistema beneficiale con altri modi di sostentamento del clero più adeguati, sia ai vincoli teologico-sacramentali esistenti tra Vescovi e presbiteri suoi collaboratori, sia ai rapporti di cooperazione e di servizio che concretizzano questi vincoli a livello istituzionale, specie l’incardinazione. I poli della relazione da cui deriva il diritto al sostentamento non sono più ufficio-beneficio-titolare, ma la più diretta relazione tra la Chiesa ed i ministri che la servono; e più concretamente tra la diocesi (e altre istituzioni simili) ed i chierici al loro servizio.
Questa nuova impostazione dal punto di vista organizzativo-patrimoniale ha come importante conseguenza che l’unità economica tipo non è più il beneficio bensì la diocesi[36].
Il Decreto Presbyterorum ordinis (n. 21) delineò un modello possibile di organizzazione economica della diocesi, sostanzialmente recepito nel nuovo Codice nei can. 1274 e 1275. Questo schema si basa su due principi fondamentali: autonomia diocesana e cooperazione interdiocesana.
L’autonomia della diocesi in materia patrimoniale è una conseguenza della dottrina conciliare sui Vescovi e sulla posizione e missione che spetta alle Chiese particolari nella struttura costituzionale della Chiesa universale[37].
Di conseguenza, dal punto di vista del diritto amministrativo, la diocesi (come le altre circoscrizioni ecclesiastiche maggiori) non ha altro Superiore che la Santa Sede; per cui in essa amministrazione immediata e amministrazione intermedia si concentrano nel Vescovo diocesano, che è l’Ordinario proprio e l’amministratore naturalmente deputato del patrimonio diocesano e quindi di tutti i fondi ed entità a cui siano intestati i beni della diocesi[38]. Negli affari economici egli viene aiutato dai suoi Vicari (Ordinari locali anche loro) e da diversi consigli diocesani (presbiterale, economico, di consultori); ma che sono sempre organi interni alla stessa diocesi.
Bisogna altresì distinguere gli affari economici della diocesi in sè (quelli cioè che riguardano il patrimonio proprio), da quelli delle persone giuridiche di diritto diocesano (parrocchie, associazioni di fedeli, istituti religiosi...), delle quali il Vescovo è l’Ordinario proprio (amministrazione intermedia), ma che hanno un patrimonio diverso da quello diocesano e i loro amministratori immediati[39].
Allo stesso tempo, in poche materie come questa si avverte la necessità di un’efficace cooperazione tra le diocesi -manifestazione della communio ecclesiarum- che consenta lo scambio cristiano dei beni e il coordinamento degli sforzi, per far fronte alle circostanze economiche e giuridiche comuni.
Con queste premesse il can. 1274 propone (non impone) un modello flessibile ed ampio di organizzazione patrimoniale diocesana, fondato sulla distinzione delle tre grandi aree di bisogni a cui deve far fronte la diocesi e auspicando la creazione di fondi o istituti patrimoniali diversi per ognuna di esse[40].
Il § 1 del can. 1274 lo configura come «un istituto speciale che raccoglie beni ed offerte per il sostentamento dei chierici che prestano servizio a favore della diocesi». Si tratta di una fondazione autonoma diocesana, un ente a base patrimoniale con propria personalità, eretto dal Vescovo. Come tale dovrà avere una sua propria organizzazione e propri statuti. A riguardo, il Decreto PO, 21 e il M.P. Ecclesiae Sanctae, I 8 precisano che tale istituzione deve essere amministrata dal Vescovo con l’aiuto di sacerdoti delegati e, se necessario, da laici esperti[41].
La finalità propria di questo istituto è la remunerazione dei chierici -incardinati o non- che servono la diocesi. Questa specificazione ha un fondamento teologico e giuridico più profondi della semplice idea organizzativa: il legame ministeriale del presbitero alla diocesi e la sua cooperazione al lavoro pastorale del Vescovo.
Non si tratta di un rapporto di lavoro in senso secolare, poiché sono l’ordine sacro e l’incardinazione che fondano i diritti e doveri riguardanti il sostentamento dei chierici, nella misura in cui esigono la disponibilità di questi al servizio della Chiesa (di una concreta comunità ecclesiale) e gli vieta altri impegni. L’ufficio o gli incarichi che svolge un chierico possono servire per determinare quantitativamente la sua retribuzione, ma non ne sono il fondamento specifico. In questo senso anche se i termini sostentamento, remunerazione, retribuzione, possono essere usati indistintamente in riferimento ai mezzi di vita dei chierici, forse il più adeguato è sostentamento, in quanto indica meglio il fondamento specifico del sistema.
È appunto significativo che il § 4 del can. 1274, nell’indicare possibili spazzi di cooperazione interdiocesana si riferisca ad altre materie e finalità (quelli dei §§ 2 e 3 dello stesso can.) ma non a questi istituti, lasciando intendere che né le diocesi né i loro pastori devono delegare ad altri organismi sovradiocesani l’obbligo diretto ed immediato che hanno di sostenere i chierici. Il che non esclude che vi possa essere -in alcuni casi, anzi, sarà necessario- una certa collaborazione istituzionale in questa materia[42], senza però disancorare il sistema di sostentameto dai suoi rapporti e vincoli vitali (l’ordine sacro e l’incardinazione o comunque il servizio in una comunità ecclesiale).
Le risorse economiche di questo istituto diocesano derivano da svariate fonti. Il CIC ne segnala alcune: le rendite e le doti dei benefici che si vanno estinguendo in ottemperanza al can. 1272, i beni di determinate fondazioni pie non autonome alla scadenza del termine per cui furono costituite (can 1303 § 2) e, in generale e fondamentalmente, il can. 1274 § 1 segnala «i beni e le offerte» destinati all’istituto dal vescovo o dai donanti. È quindi possibile indirizzare ad esso qualsiasi tipo di introito -anche aiuti statali-, ma l’istituto secondo il Concilio è destinato a raccogliere soprattutto le offerte generose dei fedeli. La comunità, infatti, è responsabile del sostentamento dei ministri che la servono.
Le regole generali per stabilire l’entità quantitativa della retribuzione dei chierici sono due: congruità ed uguaglianza. Che sia congrua significa che deve essere sufficiente ed adeguata, ossia, che consideri la condizione, le necessità reali, i compiti che si svolgono, e le altre circostanze di qualsiasi tipo. Inoltre lo stipendio deve consentire al chierico di retribuire con giustizia le persone che lo servono (familiari, ecc.), di godere di alcune vacanze adeguate e di poter dare personalmente elemosine (PO, 20, can. 281 § 1 e 283 § 2).
Nel caso dei diaconi sposati, la congruità esige inoltre che possano mantenere la loro famiglia, tenendo anche presente ciò che ricevono per l’esercizio, attuale o passato, di una professione civile (can 281 § 3)[43].
L’uguaglianza esige che la remunerazione sia «fondamentalmente la stessa per tutti quelli che si trovano nelle stesse circostanze» (PO, 20). Si vogliono così evitare sia le differenze infondate sia l’egualitarismo che non tenesse presente la situazione reale di ogni chierico[44].
Il § 2 del can. 1274 attribuisce alla Conferenza Episcopale la responsabilità di provvedere ad un’istituto per la previdenza sociale del clero, ove questa non sia già organizzata dal diritto civile o canonico (PO, 21).
Il richiamo alla Conferenza Episcopale non implica necessariamente l’attribuzione ad essa della competenza generale in materia. Dipenderà dalla decisione dei suoi membri[45]. La cura dei chierici in caso di malattia, invalidità o vecchiaia è una conseguenza del dovere di retribuirli adeguatamente che, come abbiamo visto, ricade direttamente ed immediatamente sulla diocesi, alla quale potranno sempre rivolgersi (can 281).
Partendo da questa premessa, il § 4 del can. 1274 suggerisce -aptius obtinere possunt- l’opportunità di una cooperazione interdiocesana, allo scopo di provvedere meglio alla previdenza del clero.
La cooperazione si potrà attuare mediante la federazione delle diverse istituzioni diocesane di un territorio (provincia, regione, nazione, livello sovranazionale) con organismi centrali di direzione. Un’altra formula è quella di un regime di cooperazione o di associazione non già di istituti diocesani ma di diocesi -anche tutte quelle di una Conferenza Episcopale-, sia per organizzare insieme la prestazione e gestione dei servizi, contribuendo ogni diocesi proporzionalmente alle spese, sia per costituire un’unica istituzione che si occupi della previdenza sociale del clero.
Tutte queste formule consentono a loro volta varie realizzazioni concrete, ma qualunque sia il sistema concreto che venga adottato, è importante assicurare il suo corretto funzionamento, in modo che siano ben chiari i diritti e gli obblighi delle diocesi che vi partecipano; a questo fine il can. 1275 stabilisce che i beni provenienti da più diocesi siano amministrati “secondo norme opportunamente concordate dai Vescovi interessati”[46].
Le fonti d’introito di queste istituzioni previdenziali saranno molto diverse; il Codex non le specifica. Il Decreto PO (n. 21) indica l’opportunità che i chierici collaborino al sostentamento di questi istituti come manifestazione di solidarietà.
Mentre il sostentamento e la previdenza sociale del clero sono oggetto di un’attenzione specifica ed istituzionalizzata, le altre necessità e gli altri fini a cui deve provvedere la diocesi sono oggetto di un’attenzione globale. Il § 3 del can. 1274 prevede la creazione di una massa di beni per la gestione comune di tutti gli altri compiti della diocesi. Come esempio di finalità concrete sono segnalate la retribuzione delle altre persone che lavorano al servizio della diocesi (can 1286) e l’aiuto alle diocesi più bisognose: una tradizione apostolica sempre viva riconfermata dall’ultimo Concilio.
Diversamente dalle altre due istituzioni precedenti, questa non si presenta come una persona giuridica a base patrimoniale, ma solo come un fondo, un patrimonio separato destinato a far fronte alle diverse responsabilità economiche della diocesi.
Nel CIC non sono neanche specificate le fonti d’entrata di questa massa diocesana di beni; il Decreto PO indica che sono principalmente gli aiuti dei fedeli «però anche -aggiunge - mediante beni provenienti da altre fonti specificate dal diritto» (n. 21). Spetta quindi al Vescovo diocesano legiferare su questa materia.
Sono suggerite anche per questi fondi le stesse possibilità di collaborazione tra le diocesi codificate per gli istituti per la previdenza del clero, per cui vale qui quanto detto prima. Bisogna aggiungere che, in questo caso, l’importanza di questa collaborazione è ancora più evidente, soprattutto perché sembra la via più adeguata per la comunione e la solidarietà nell’uso dei beni temporali.
La struttura economica della diocesi testè studiata, anche se può sembrare semplice e poco definita, è importante soprattutto in quanto rappresenta il passaggio verso un sistema di bilancio preventivo, di esercizio, basato cioè sulla previsione e gestione annua degli introiti e delle spese, non più sulle rendite o frutti di un patrimonio.
Oltre all’aspetto studiato, che possiamo chiamare statico, l’analisi dell’organizzazione economica della diocesi comprende anche la trattazione dei diversi organi competenti per l’amministrazione dei beni, in primo luogo il Vescovo. Logicamente vi possono essere organismi specifici per le diverse istituzioni e fondi patrimoniali che abbiamo sopra descritto; ma in quanto gestiscono beni appartenenti al patrimonio diocesano, essi saranno sempre dipendenti degli organi diocesani.
Come abbiamo già accennato, nella potestà economica dell’ufficio episcopale bisogna distinguere due diversi settori di competenze. L’amministrazione del patrimonio diocesano (beni appartenenti alla diocesi, anche se distribuiti in diversi fondi, istituti, ecc.) e l’amministrazione intermedia o mediata delle persone giuridiche che sono sottoposte alla sua giurisdizione come Ordinario proprio (i cui beni appartengono ad esse, e non alla diocesi). Di questo secondo livello già ci siamo occupati trattando delle competenze dell’Ordinario (n. 5. b)[47].
Per il suo ministero di capo della Chiesa particolare, secondo i can. 391, 393 e 1279, il Vescovo è l’amministratore dei beni diocesani; a lui compete la rappresentanza giuridica della diocesi e tutti gli altri organi di amministrazione partecipano della sua autorità e lo aiutano.
A lui spetta provvedere all’organizzazione del patrimonio diocesano: erigere gli istituti diocesani per il clero e costituire il fondo diocesano per le altre necessità (can. 1274); stabilire i beni e le entrate che spettano ad ognuno di essi, dotarli di statuti ed organi propri, ecc.; e concordare con gli altri Vescovi i modi di collaborazione interdiocesana. Per la sua funzione di capo della diocesi, ha anche poteri sugli altri organi di amministrazione diocesana, che ora vedremo.
Il Vescovo è responsabile della buona amministrazione della diocesi, del rispetto dei fini, del funzionamento dei servizi, di contribuire anche al finanziamento della Sede Apostolica (can 1271). Per far ciò dovrà fissare le collette ed i tributi che ritenga necessari, organizzarli in maniera conforme al diritto, stabilire la destinazione dei fondi raccolti e le modalità della loro amministrazione e distribuzione.
Il diritto però stabilisce anche alcuni limiti alla potestà economica del Vescovo per gli atti di maggiore importanza, in quanto ha bisogno per realizzarli del parere o dell’assenso di qualche altro organismo diocesano o della Santa Sede (can. 381 § 1, 391 § 1).
Riguardo alle persone giuridiche che fanno parte della struttura istituzionale della diocesi (parrocchie, seminario, chiese rettorali, ecc.), gli compete fissare norme di diritto particolare sull’amministrazione dei loro beni e sulle relazioni economiche con la Curia diocesana, stabilendo -nell’ambito del diritto universale e quindi nel rispetto della loro autonomia- un regime più o meno ampio di decentramento e di vigilanza, di solidarietà e tutela.
Anche delle altre persone giuridiche di diritto diocesano (conventi, associazioni, ecc.) gli compete l’amministrazione mediata.
È l’organo collegiale tipicamente tecnico che collabora con il Vescovo alla gestione economica diocesana. Lo integrano fedeli, esperti in diritto civile ed economia, in numero non inferiore a tre, nominati dal Vescovo che lo presiede di persona o mediante delegato (can 492). Si regge per i propri statuti datili dal Vescovo diocesano[48].
Il compito principale di questo consiglio riguarda il bilancio preventivo della diocesi: lo elabora secondo le indicazioni del Vescovo, stabilisce il modo in cui l’economo deve attuarlo, e ne riceve da quest’ultimo il rendiconto annuale sulle spese ed entrate effettive (can. 493 e 494). Nell’ambito di queste funzioni generali il Vescovo può attribuirgli altre competenze concrete che ritenga opportune, per assicurare l’efficace ed ordinata gestione del bilancio.
Può inoltre aiutare il Vescovo nel controllo delle persone giuridiche di diritto diocesano, rivedendo i bilanci presentati (can. 1287 § 1).
Questa funzione di aiuto, assume un carattere percettivo per il Vescovo in alcuni casi concreti, ossia quando il diritto gli impone il dovere di ascoltare o di ottenere l’assenso del consiglio economico.
In particolare il Vescovo deve richiedere il parere del consiglio per gli affari economici per: 1) nominare e rimuovere l’economo diocesano (can. 494); 2) imporre i tributi diocesani ordinario e straordinario (can. 1263); 3) realizzare atti di ordinaria amministrazione di maggiore importanza (can. 1277); 4) stabilire quali atti sono di amministrazione straordinaria, per le persone a lui sottoposte quando i loro statuti non lo stabiliscano (can. 1281 § 2); 5) decidere sulla migliore collocazione della dote di fondazioni di cui è responsabile (can. 1305); 6) ridurre gli oneri di queste fondazioni tranne che non si tratti di riduzione di Messe (can 1310 § 2).
Invece deve avere l’assenso del consiglio per: 1) gli atti di amministrazione straordinaria (can 1277); 2) disporre di beni del patrimonio stabile della diocesi (can 1292 § 1); 3) autorizzare l’alienazione di beni di persone a lui soggette quando il loro valore richiede tale intervento (ivi).
È un organo consultivo che non ha carattere specificatamente economico, ma che aiuta il Vescovo in modo stabile nel governo della diocesi in rappresentanza del presbiterio e può assumere funzioni speciali in caso di Sede impedita o vacante.
Poiché alcuni affari economici più importanti possono ripercuotersi sull’andamento generale della diocesi, è opportuno che questo collegio intervenga nella trattazione di essi. Il diritto universale stabilisce alcuni atti concreti in cui questo intervento è obbligatorio. Concretamente il Vescovo deve ascoltare il suo parere per nominare e rimuovere l’economo diocesano e per realizzare gli atti di amministrazione ordinaria più importanti (can. 494 e 1277); per l’imposizione dei tributi diocesani, invece, deve ascoltare il consiglio presbiterale (can 1263). Ha bisogno del suo assenso negli stessi casi stabiliti per il consiglio di affari economici (can. 1277 e 1292).
E’ un ufficio tecnico che si occupa dell’amministrazione diretta del patrimonio diocesano a nome e sotto l’autorità del Vescovo. Si tratta di un incarico di fiducia per cui il Vescovo deve nominare una persona -chierico o laico- che abbia le condizioni di esperienza e di onestà necessarie. Allo stesso tempo deve avere una certa stabilità, e così si spiegano le cautele del can. 494 § 2 per la sua nomina e rimozione. Quest’ufficio è incompatibile con quello di Amministratore diocesano (can. 423 § 2).
Gli è affidata soprattutto l’esecuzione del bilancio preventivo della diocesi elaborato dal consiglio degli affari economici e secondo le modalità da esso stabilite, al quale deve presentare i conti ogni anno per approvazione.
Il Vescovo può affidare all’economo la funzione generale di vigilare sulle persone giuridiche che sono sotto la sua giurisdizione, ed anche l’amministrazione diretta di quelle prive di amministrazione propria (can 1278)[49].
Insomma, come si vede, la natura ed il ruolo delle Chiese particolari in seno alla Chiesa universale, si riflette anche nel diritto patrimoniale canonico. La loro organizzazione economica è ben delineata dal CIC nei suoi tratti fondamentali, e tenendo conto delle loro peculiarità costituzionali. In questo senso la diocesi non è una persona giuridica come le altre; perciò diverse norme patrimoniali la riguardano specificamente, sia per mettere in rilievo la loro centralità ecclesiale, sia per confermare l’autonomia del Vescovo diocesano come pastore. L’importanza della normativa particolare diocesana come fonte regolatrice la materia, entro il quadro del diritto comune, ne è una logica conseguenza.
Perciò, i controlli e le cautele che possono limitare la potestà del Vescovo diocesano come amministratore della diocesi, sono interni, ossia competono ad organi della stessa diocesi, dunque senza pregiudizio dell’autonomia istituzionale. Tutti gli altri controlli spettano solo alla Santa Sede, soprattutto attraverso la relazione quinquennale che il Vescovo deve presentare (can 399) e la licenza necessaria per alcuni atti (can. 1292 § 2, 1308 e 1310 § 3). No si è voluto stabilire per le diocesi un’istanza intermedia di controllo nelle Conferenze episcopali[50].
L’amministrazione patrimoniale in quanto attività può essere intesa in senso ampio come la gestione economica della persona giuridica, comprendente tutti i negozi e operazioni tesi a incrementare, conservare, trasformare, strutturare e impiegare il suo patrimonio in ordine a rendere possibili i fini e attività della medesima persona, comprende in somma gli aspetti economici del governo della persona giuridica. Può essere però anche intesa nel senso strettamente giuridico del termine amministrazione, e quindi limitata agli atti di conservazione, uso e usufrutto di un patrimonio, escludendone gli atti di acquisto e quelli di alienazione. La distinzione comunque non e tanto data dalla natura degli atti da compiere quanto dalla ampiezza e natura delle competenze.
Come osserva Schouppe[51], il termine amministrazione non è adoperato univocamente nel Codice. Da una parte la struttura del Libro V (che affronta in titoli diversi l’acquisto, l’amministrazione e l’alienazione dei beni ecclesiastici) sembra indicare che un uso stretto del concetto amministrazione. D’altra parte è evidente che in non pochi canoni il termine amministrazione ha il senso ampio di governo o direzione economica immediata della persona giuridica[52].
Infatti, ricollegando con quanto prima visto sulle competenze amministrative (n. 5), troviamo in primo luogo che la gestione amministrativa del patrimonio ecclesiastico è divisa secondo livelli di competenza. In questo senso abbiamo già studiato i soggetti cui spetta l’amministrazione suprema (Romano Pontefice) e quella mediata o intermedia (l’Ordinario) e le loro competenze.
Adesso dobbiamo occuparci dell’amministrazione immediata dei beni ecclesiastici. Essa, secondo il can 1279 § 1, “spetta a chi regge immediatamente la persona giuridica cui gli stessi beni appartengono”; cioè agli organi di direzione e rappresentanza della persona.
Tra questi organi rettori della persona giuridica devono sempre essere presenti due specificamente competenti in sede patrimoniale: gli amministratori ed il consiglio per gli affari economici.
Gli amministratori -uno o più- sono designati nel modo stabilito nel diritto comune o particolare della persona giuridica. Nel caso in cui ciò non fosse previsto, è l’Ordinario a nominare persone idonee per periodi triennali (can 1279 § 2).
Il consiglio per gli affari economici è un collegio che aiuta l’amministratore nell’adempimento del suo compito. Se un ente non ha un proprio consiglio devono esserci almeno due consiglieri che ne svolgano le funzioni (can 1280).
Detto questo, ed anche se nei canoni non si ravvisa una precisione terminologica adeguata, in questa materia si impone distinguere tra amministrazione immediata e amministratori di beni ecclesiastici.
L’amministrazione immediata come insieme di competenze comprendenti la gestione economica del patrimonio di una persona giuridica, fa parte del regime interno della medesima e quindi, come si è detto, spetta normalmente agli organi di direzione e di rappresentanza della stessa persona (“qui immediate regit personam” dice il can 1279 § 1). Così il can. 393 segnala il Vescovo diocesano come rappresentante della diocesi in tutti i negozi, e parimenti per il can. 532 è il parroco a rappresentare la parrocchia.
Tuttavia l’esercizio materiale o tecnico di alcune di queste competenze amministrative spesso ricade su alcuni organi specifici incaricati di realizzarle: l’amministratore (o economo) aiutato dal consiglio degli affari economici (can. 1279 e 1280). Le loro competenze concrete e le loro relazioni con gli altri organi di direzione, saranno stabilite dalle norme universali e particolari che riguardino ogni ente e, in definitiva, dal mandato concreto loro concesso. Ed allora se da una parte l’amministratore nato della diocesi è il Vescovo diocesano (can. 393), dall’altra anche l’economo diocesano si può considerare amministratore in quanto realizza gli atti di amministrazione sotto la autorità e per mandato del Vescovo. In questo senso ampio è amministratore chiunque interviene nella gestione di beni ecclesiastici per qualsiasi titolo ed a qualsiasi livello.
Trattandosi di un’attività che ricade sui beni della Chiesa, la loro amministrazione è una funzione pubblica, che implica una partecipazione alla potestà esecutiva di governo e, come tale, deve essere esercitata secondo i principi e le norme giuridiche che la riguardano (can 1282).
Il Codice stabilisce il quadro giuridico generale entro il quale gli amministratori devono svolgere le loro funzioni. In esso si delineano i punti fondamentali che assicurano il collegamento di ogni attività di amministrazione con l’autorità ecclesiastica. Sono descritte le principali competenze e doveri che normalmente spettano agli amministratori (can. 1283, 1284 e 1287), principalmente quelli riguardanti: la conservazione e la sicurezza del patrimonio, l’esercizio dei diritti e l’adempimento degli obblighi di tipo economico, l’osservanza delle norme -canoniche e civili- di diritto patrimoniale, la contabilità e l’ordine materiale dei documenti ed il rendiconto.
Bisogna però tenere presente che il regime concreto di ogni patrimonio, e quindi le specifiche competenze di ogni amministratore, verranno determinati dal diritto particolare statutario che ogni ente giuridico pubblico è tenuto a darsi e ad osservare.
Tra gli svariati atti che compongono la gestione patrimoniale di un ente si possono stabilire molte distinzioni; quella giuridicamente più rilevante è la che distingue tra atti di amministrazione ordinaria ed atti di amministrazione straordinaria. Questi ultimi sono disciplinati dal diritto con la prevvisione di alcuni requisiti per la loro validità, al fine di salvaguardare la stabilità economica della persona titolare e, in generale, del patrimonio ecclesiastico.
Qui si fa necessario distinguere (tra tutti i beni che appartengono ad un soggetto) quelli che integrano il suo patrimonio stabile e quelli che invece si possono qualificare di redditi e che costituiscono il patrimonio da spendere nei fini e attività della persona giuridica.
Del patrimonio stabile fanno parte i beni che garantiscono la stabilità economica e la operatività della persona giuridica (e quindi la sua stessa permanenza), di solito si tratterà di beni immobili adibiti alle attività proprie dell’ente titolare, ma del patrimonio stabile possono fare parte anche altri beni ad esso specificamente ascritti (dal diritto particolare o dalla volontà del donante) dalle cui rendite attingere il necessario per le spese correnti. Proprio a motivo di questa funzione di assicurare la stabilità economica della persona giuridica, che compie il patrimonio stabile, esso viene protetto dalla legge in maniera speciale, al fine di evitare che si possa disperdere e mettere in pericolo la sussistenza della persona stessa.
L’amministrazione ordinaria coincide sostanzialmente con quella che prima abbiamo chiamato amministrazione in senso stretto, cioè quella limitata agli atti di conservazione uso e usufrutto del patrimonio stabile e al impiego ordinato delle rendite.
Entro gli atti di amministrazione ordinaria, il Codice distingue, per la diocesi, quelli che “attesa la situazione economica della diocesi, sono di maggior importanza” (can. 1277). Per poterli compiere validamente, il Vescovo diocesano deve sentire il parere del consiglio diocesano per gli affari economici e del collegio dei consultori (cf. can. 127).
Il Codice si limita ad indicare come atti di amministrazione straordinaria “quelli che vanno oltre il fine e le modalità dell’amministrazione ordinaria” ma affida la loro precisa individuazione, secondo i casi, agli statuti, al Vescovo o alla Conferenza Episcopale in definitiva: al diritto particolare (can. 1277 e 1281).
Per tale individuazione sono state proposte varie soluzioni, nessuna senza sconvenienti, poiché non sembra possibile una distinzione netta tra l’uno e l’altro tipo di atti di amministrazione a livello normativo.
a) La più comune consiste nel definire in maniera generale gli atti che riguardino l’uno o l’altro tipo di amministrazione. Si è soliti definire di amministrazione ordinaria gli atti che tendono alla conservazione del patrimonio e all’impiego dei suoi frutti. Sono atti richiesti dalla gestione ordinaria, quotidiana, normale di un patrimonio, che non comportano rischi per la sua stabilità e tendono ad assicurarlo ed a renderlo effettivamente utile per i fini a cui è destinato. Ossia, quegli atti che possono e devono realizzare gli amministratori nel normale esercizio delle attività enumerate dal can. 1284. López Alarcón ritiene che questi siano gli unici atti di amministrazione in senso stretto.
Atti di amministrazione straordinaria sarebbero invece quelli che riguardano o possono riguardare in maniera determinante la sostanza del patrimonio, la sua stabilità, la sua natura o struttura materiale o giuridica, o la sua idoneità a conseguire i fini della persona titolare. In definitiva, secondo la lettera del can. 1295 “qualsiasi negozio che possa peggiorare la condizione patrimoniale della persona giuridica”; per cui, in un certo senso, gli atti di amministrazione straordinaria sono equiparati a quelli di disposizione che riguardino il patrimonio stabile del soggetto, per i quali il detto can. 1295 prevede una disciplina specifica.
Con questa equiparazione si rischia di ridurre gli atti di amministrazione straordinaria alle sole alienazioni, ma anche di estendere i requisiti delle alienazioni a tutti gli atti di amministrazione straordinaria. Il che non è esatto, poiché non c’è rischio positivo di peggioramento nell’accettazione di donazioni o lasciti senza oneri o condizione (e di fatti si richiede licenza dell’Ordinario per rifiutarli ma non per accettarli: can. 1267 § 2) [53].
b) Un secondo criterio di distinzione consiste nell’enumerare, elencandoli, gli atti concreti che riguardano l’una e l’altra amministrazione. Durante l’elaborazione del Codice vi fu chi sollecitò l’adozione di questo metodo, ma la richiesta fu respinta proprio per la sua pratica impossibilità[54].
c) Il terzo criterio è quantitativo: si considerano atti di amministrazione straordinaria quelli che presuppongono una spesa superiore ad una quantità fissata, parimenti a come è stabilito per alcune alienazioni.
I tre sistemi descritti non si escludono e la loro combinazione può contribuire ad un’equilibrata distinzione pratica tra le due amministrazioni. Tuttavia queste definizioni, pur essendo utili, continuano ad essere legate alla tradizionale distinzione tra il patrimonio stabile -la cui alterazione eccede la capacità normale degli amministratori- e le rendite o frutti dello stesso sui quali ricade soprattutto l'amministrazione ordinaria. Si dovranno elaborare i contenuti dei concetti di amministrazione ordinaria e straordinaria anche secondo l'ottica di un patrimonio di gestione. Faranno così parte della prima l'insieme di attività che portano all'effettiva realizzazione di un preventivo e della seconda quegli atti che minacciano detta realizzazione o semplicemente implicano deviazioni notevoli dal preventivo.
La principale conseguenza pratica della distinzione tra amministrazione ordinaria e straordinaria, consiste nel fatto che gli amministratori immediati non sono legittimati a realizzare validamente atti di amministrazione straordinaria senza previa autorizzazione scritta dell’Ordinario -titolare dell’amministrazione intermedia-. Nel caso della diocesi, il Vescovo per porre validamente atti di amministrazione straordinaria ha bisogno del consenso dei consigli dei consultori e degli affari economici (can 1277). Per quanto riguarda li istituti di vita consacrata il c. 638 § 1 prevede che sia il diritto proprio dell’istituto a determinare quali sono gli atti di amministrazione straordinaria e quali le cautele da osservare per la loro valida attuazione[55].
La non osservanza di questi requisiti da parte degli amministratori comporta la nullità dell’atto e la completa irresponsabilità della persona giuridica in tale negozio, restando solo vincolata nei limiti in cui ne abbia beneficiato. Tutte le conseguenze giuridiche ricadono viceversa sull’amministratore che agì senza la capacità specifica richiesta (can 1281 § 3)[56].
Nella gestione dei beni è sempre di grande importanza l’adempimento delle leggi civili che riguardano il patrimonio ecclesiastico, sia per quanto riguarda la sua titolarità, che per la dinamica negoziale; molti canoni insistono su questo punto, chiedendo che le operazioni vengano compiute in modo che risultino valide anche nel diritto civile.
Sono cautele frutto dell’esperienza, che oggi sono ancora più urgenti in quanto i principi che guidano le relazioni con gli Stati attribuiscono rilevanza civile alle norme canoniche solo entro i limiti dell’ordinamento statale, senza possibilità di derogarvi. In considerazione di ciò, il legislatore canonico cerca di evitare i presupposti di eventuali conflitti, che in pratica comporterebbero l’inapplicabilità delle norme canoniche o l’inefficacia degli atti.
Per questi motivi, oltre che per ragioni di economia legislativa e di adeguamento alle circostanze di ogni luogo, il can. 1290 recepisce le norme del diritto civile riguardanti i contratti e i pagamenti vigenti in ogni territorio[57].
La Chiesa preferisce non stabilire una propria normativa per queste materie, senza però rinunciare alle sue competenze: mediante rinvio essa fa sua -e, in questo senso, canonizza- la legge civile locale. Nel canone in parola si dice che le leggi civili “siano parimenti osservate per diritto canonico”. Il che ha come conseguenza principale che l’applicazione nella società ecclesiastica di tali norme si deve compiere secondo lo spirito e i principi dell’ordinamento canonico, del quale esse entrano a far parte[58]. La Chiesa assume il diritto civile nel momento normativo, non negli altri momenti che compongono la dinamica del suo ordinamento giuridico.
In forza di questa remissione i contratti, come istituti giuridici attraverso i quali nascono, si modificano o estinguono diritti e obblighi, nonché i modi di esercitare gli uni e liberarsi dagli altri, trovano la loro specifica regolamentazione canonica nella norma del can 1290.
Infatti, il contenuto normativo di questo canone è appunto il diritto civile vigente in ogni momento nel territorio. Un contenuto ben preciso e determinato, ma non statico dal momento che è soggetto alle eventuali modifiche del diritto civile. Si tratta quindi di una canonizzazione dinamica delle leggi civili.
Il rinvio si riferisce specificamente alla materia «sui contratti sia in genere sia in specie, e sui pagamenti», a quanto cioè riguarda gli elementi essenziali, naturali ed accidentali dei contratti in genere e di ogni tipo particolare di contratti, nonché a quanto si riferisce ai modi di liberarsi (solvere) delle obbligazioni.
Tale rinvio ha però certi limiti stabiliti nello stesso can. 1290: esso non vige a) quando le leggi civili siano contrarie al diritto divino; b) ove il diritto canonico abbia già stabilito diversamente in materia; c) d’altra parte si chiarisce che la remissione del c. 1290 opera “fermo restando il disposto del can 1547”.
a) Il diritto divino, naturale e positivo, non può essere leso o reso inefficace a causa dell’applicazione di norme di diritto umano; di conseguenza, il primo limite alla remissione -nisi iuri divino contraria sint- non è altro che l’attuazione in un caso concreto di un principio generale e basilare dell’ordinamento della Chiesa: la prevalenza del diritto divino sul diritto umano.
Si deve però notare che fissando questo limite non si intende esprimere un giudizio aprioristico sulla validità e correttezza delle basi degli ordinamenti civili; semplicemente si impedisce la concreta efficacia di alcune norme civili, le quali, integrandosi nell’ordinamento canonico, producano effetti contrari all’ordine divino sulla Chiesa.
b) L’altro limite al rinvio -nisi aliud iure canonico caveatur- riguarda la priorità della normativa canonica nei casi di concorrenza con il diritto civile. Il legislatore ecclesiastico logicamente si riserva la possibilità di legiferare, con efficacia intraecclesiale, sui contratti e le obbligazioni, perciò mentre ordina che vengano osservate come canoniche le relative leggi civili, stabilisce che ciò non avvenga ove ci sia una norma canonica specificamente applicabile al caso.
Non è facile determinare a priori tutti i casi in cui esiste una tale concorrenza normativa; si possono comunque segnalare come esempi di disposizioni canoniche specifiche e perciò operative: il requisito della buona fede continuativa per la prescrizione (can 198); i termini speciali stabiliti, sempre per la prescrizione, dal can. 1270; e, in generale, le cautele stabilite per le alienazioni.
c) In fine, il riferimento del can. 1290 al can. 1547., López Alarcón lo ha interpretato nel senso che si deve sostenere la validità canonica dei patti conclusi coram solis testibus e che si deve sempre ammettere la prova testimoniale in materia di contratti e obbligazioni. Mantecón segnala inoltre che il rinvio del can. 1290 riguarda il diritto civile su obbligazioni e contratti, non il relativo diritto processuale[59]
Come abbiamo visto, nella gestione dei beni della Chiesa vi sono atti che, per la loro importanza, il diritto circonda di speciali cautele al fine di salvaguardare la stabilità patrimoniale delle persone giuridiche pubbliche. Tra questi vi sono quelli che il CIC denomina alienazioni (Lib. V, tit. III) e che più propriamente si possono denominare atti di disposizione, dato che includono “qualsiasi negozio che possa peggiorare la condizione patrimoniale della persona giuridica” (1295), ed esplicitamente le locazioni (can 1297).
Senza volerli escludere dagli atti di amministrazione straordinaria -tra i quali si devono ritenere compresi come un loro tipo-, il Codex stabilisce per gli atti di disposizione una normativa speciale alla quale si devono adeguare gli statuti delle persone giuridiche (can 1295)[60].
Non si tratta qui però di qualsiasi atto di disposizione ma solo di quelli che: a) riguardano beni integranti per legittima assegnazione il patrimonio stabile della persona giuridica[61]; b) il cui valore superi la somma minima fissata dalla Conferenza Episcopale (can. 1291 e 1292)[62].
Queste alienazioni richiedono, cioè, una specifica legittimazione degli amministratori perché possano essere valide.
L’autorità che deve concedere la licenza o dare il consenso dipende dalla persona giuridica del cui patrimonio si tratta e dal valore e tipo dei beni da alienare. Dunque al di sopra della somma minima stabilita dalla Conferenza:
Il Vescovo diocesano, per alienare beni della diocesi, deve ottenere il consenso del consiglio per gli affari economici, del collegio di consultori. Non si tratta quindi in questo caso di licenza ma di consenso.
Se si tratta invece di una persona giuridica soggetta al Vescovo diocesano, compete a lui stesso dare la licenza, ma prima occorre che ottenga il consenso degli stessi collegi che per la diocesi oltre a quello degli interessati.
Per le persone non soggette al Vescovo diocesano, gli statuti stabiliranno a quale autorità spetta dare la licenza.
Al di sopra del limite massimo fissato dalla Conferenza episcopale si deve inoltre ottenere licenza della Santa Sede (di regola è competente la Cong. del clero). Questa licenza è sempre necessaria se si tratta di beni preziosi o di beni donati ex voto alla Chiesa, quale che ne sia il valore economico.
Chi deve intervenire nel rilascio della licenza, è necessario che sia previamente ed esattamente informato delle circostanze del caso.
Al requisito della licenza si aggiungono altre condizioni -previe, simultanee e successive-:
giusta causa (can. 1293 § 1, 1º);
stima della cosa da alienare fatta da periti per scritto (ivi, 2º);
sul prezzo da esigere, ecc. (can. 1294 § 1);
altre cautele prescritte dalla legittima autorità a norma del can 1293 § 2.
Inoltre, onde evitare conflitto di interessi, il c. 1298 proibisce che i beni siano venduti o locati agli amministratori o ai loro parenti, senza licenza scritta dell’autorità competente.
La locazione (i fitti) viene inclusa dal legislatore tra i contratti che in certo senso possono essere equiparati ad una alienazione (specie se sono per un periodo di tempo lungo o indefinito). La Conferenza episcopale è competente a statuire norme sulle locazioni, specie segnalando i casi in cui si deve ottenere licenza dalla stessa autorità che per le alienazioni.
Si chiamano pie volontà gli atti giuridici con i quali le persone dispongono dei loro beni destinandoli a fini di culto o di carità da loro determinati (cause pie)[63]. Logicamente il diritto canonico si interessa delle pie volontà in favore della Chiesa, cioè quando i beni vengono dati ad un ente canonico (o in favore di esso) o per il compimento di atti di culto.
In ogni causa pia vi è un soggetto che ricevendo i beni assume l’obbligo di compiere la volontà del donante o fondatore sulla loro destinazione e amministrazione (can 1300). In dipendenza dalla condizione del ricevente (persona fisica, persona giuridica pubblica o privata) e al modo in cui si ricevono i beni, questi diventeranno beni ecclesiastici o meno.
Comunque trattandosi di beni che devono servire per i fini della Chiesa, all’autorità ecclesiastica interessa l’effettivo compimento delle pie volontà e l’adeguata amministrazione dei beni. Perciò il can. 1301 -oltre ad altri motivi di diritto pubblico esterno- affida l’esecuzione di tutte le pie volontà all’Ordinario, con i compiti di vigilanza e di controllo stabiliti dal diritto, chiunque sia l’esecutore immediato designato dal fondatore. Siamo dunque nello schema di esecuzione intermedia o mediata (che spetta all’Ordinario ope legis) ed esecuzione immediata (che spetta alla persona designata dal donante e alla quale affida i beni).
L’Ordinario cui spettano queste competenze è di regola quello del soggetto che riceve i beni -anche come fiduciario-; ma se i beni furono destinati dal donante al luogo, alla diocesi, ai loro abitanti o per aiutare cause pie, allora i poteri di vigilanza sull’esecuzione della volontà spettano all’Ordinario del luogo anche se chi riceve i beni è membro di un istituto di vita consacrata o di una società di vita apostolica (can 1302 § 3).
Una causa pia si può limitare all’impiego diretto dei beni donati, spendendoli nelle opere pie stabilite dal donante (una volta consumati i beni o compiute le opere stabilite la causa pia si estingue[64]; però può anche consistere in un insieme stabili di beni (dote) con le cui rendite provvedere per lungo tempo ai fini di culto e di carità voluti. In questo caso la durata della causa pia tende a prolungarsi e si rende necessario assicurarne l’adempimento dotandola del substrato soggettivo adeguato. Nel Codice si chiamano pie fondazioni solo quelle cause durature il cui substrato è costituito da una persona giuridica pubblica (can 1303). Ciò non esclude che si possano costituire fondazioni autonome private (benché non si chiamino pie), né che le persone private possano ricevere beni per cause pie durature (can 325 § 2).
Pia fondazione autonoma: Quando una causa pia è essa stessa eretta in persona giuridica pubblica, siamo dinanzi ad una pia fondazione autonoma (can. 1303 § 1, 1º). In quanto tale ha tutte le caratteristiche dei soggetti giuridici con base patrimoniale che il CIC denomina fondazioni autonome (can 115 § 3): perpetuità, statuti, organi propri di direzione. Nel CIC ‘17 erano denominati istituti ecclesiastici non collegiali (can. 1489-1494).
Pia fondazione non autonoma: Invece, quando i beni di una causa pia confluiscono nel patrimonio di una persona giuridica pubblica esistente, perché l’amministri e utilizzi le rendite secondo i fini stabiliti dal fondatore, si ha quello che il Codex definisce come pia fondazione non autonoma (can. 1303 § 1, 2º), e che il CIC ‘17 denominava fondazione pia (can. 1544-1551). In ragione della specifica finalità cui devono servire, i beni della fondazione non autonoma costituiscono un patrimonio separato e autonomo da quello della persona giuridica ricevente, e saranno oggetto di amministrazione indipendente[65].
La principale innovazione è data dal fatto che questo tipo di fondazione non può essere costituito in perpetuum, ma per un tempo determinato anche se ampio, trascorso il quale la fondazione si estingue, con la possibilità che la dote passi al fondo diocesano per il sostentamento del clero (can. 1303 § 2).
Perché si possa costituire o accettare una pia fondazione è necessario che l’autorità verifichi che: a) il fine (la volontà del fondatore) è consono con la missione della Chiesa; b) il ricevente sia capace di realizzarlo; c) i mezzi (dote) siano sufficienti (can 1304). Il diritto particolare deve stabilire altre condizioni per la costituzione e accettazione delle pie fondazioni, soprattutto per quel che riguarda la loro validità secondo la legge civile.
Una volta costituita si deve curare che la fondazione conservi la sua redditività e che effettivamente si adempiano le volontà (can. 1305-1307), tutto ciò sotto la vigilanza e con l’approvazione dell’Ordinario. Se invece -cambiate le circostanze- gli oneri diventassero eccessivi, i can. 1308 a 1310 prevedono varie possibilità per ridurle o commutarle, secondo che si tratti di Messe o di altri tipi di oneri.
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Regolamento del Consiglio per gli affari economici della diocesi di Milano
Consiglio per gli affari economici della diocesi di Milano
Regolamento
I. Natura e finalità
Articolo 1
Il Consiglio per gli affari economici diocesano (CAED) è l'organismo che coadiuva l'Arcivescovo nell'amministrazione dei beni della Chiesa ambrosiana, soprattutto sotto il profilo tecnico, giuridico ed economico.
Articolo 2
Le norme relative alla sua natura, ai suoi compiti e al suo funzionamento si trovano nel Codice di diritto canonico, nelle delibere applicative approvate dalla CEI in materia amministrativa, nel Sinodo diocesano XLVI e nel presente Regolamento.
II. Compiti
Articolo 3
Il CAED esercita funzioni di indirizzo nei confronti dell'amministrazione dei beni della Chiesa diocesana, offrendo all'Arcivescovo pareri circa:
a. l'elaborazione della normativa diocesana sui beni (can. 1276, p. 2; 1277; Sinodo XLVI, cost. 402 e 403), in particolare nell'individuare gli atti di amministrazione straordinaria posti dagli enti soggetti all'Arcivescovo (can. 1281, p. 2) e nello stabilire la misura e le modalità del tributo ordinario (can. 1263);
b. le scelte di maggior rilievo, sia di carattere generale (per es. sulle modalità di investimento delle somme appartenenti agli enti ecclesiastici), sia per casi singoli (per es. l'assunzione da parte di un ente centrale di una consistente partecipazione azionaria) (can. 1277).
Articolo 4
Il CAED esprime all'Arcivescovo il proprio consenso circa:
a. gli atti di amministrazione straordinaria posti dall'Arcivescovo, così come individuati dalla delibera CEI n. 37 (can. 1277);
b. gli atti di alienazione di beni ecclesiastici di valore superiore alla somma minima fissata dalla CEI (delibera n. 20: lire 100 milioni)[66] oppure di ex-voto e di oggetti di valore artistico e storico (can. 1292);
c. i criteri per la locabilità dei beni degli enti diocesani e gli atti di locazione di immobili del valore capitale superiore a lire 100 milioni o locati a usi né pastorali, né abitativi (can. 1297; delibera CEI n. 38)[67].
Articolo 5
Il CAED esprime all'Arcivescovo il proprio parere circa:
a. gli atti di locazione di immobili del valore capitale inferiore a lire 100 milioni locati a uso abitativo (can. 1297; delibera CEI n. 38);
b. gli atti di amministrazione straordinaria, posti dagli enti diocesani, per i quali è richiesto il nulla osta dell'Ordinario (can. 1281, p. 1; Sinodo XLVI, cost. 403) nei termini previsti dalla normativa diocesana;
c. i rendiconti annuali presentati dagli enti soggetti all'Arcivescovo (can. 1287, p. l);
d. la custodia e l'investimento, tramite la Cassa diocesana legati, di beni assegnati a titolo di dote alle pie fondazioni (can. 1305);
e. la riduzione degli oneri, non di Messe, relativi a pie fondazioni (can. 1310, p. 2);
f. la nomina e la rimozione dell'Economo della Diocesi (can. 494, p. 1 e2);
g. ogni altra questione su cui l'Arcivescovo ritiene opportuno sentire il Consiglio.
Articolo 6
Il CAED assiste l'Arcivescovo nella direzione generale dell'ente Archidiocesi di Milano e degli altri enti centrali della Diocesi.
In particolare:
a. definisce le modalità a cui l'Economo e gli Amministratori degli enti centrali devono attenersi nell'adempimento del loro compito e ne verifica l'esecuzione (can. 494, p. 3; Sinodo XLVI, cost. 403);
b. ogni anno, entro il mese di aprile, cura che venga predisposto il bilancio preventivo dell'Arcidiocesi e dei singoli enti e ne approva il bilancio consuntivo (cann. 493 e 494, p. 4);
c. su proposta del Moderator Curiae, delibera l'assunzione e il trattamento economico del persone laico della Curia, secondo il Regolamento della stessa.
III. Composizione e durata in carica
Articolo 7
I membri del CAED vengono nominati dall'Arcivescovo e devono avere i requisiti di cui al can. 492.
Articolo 8
II CAED si compone di dieci membri, così specificati:
a. cinque membri in ragione dell'ufficio:
—il Pro-Vicario generale, cui è affidato il Settore per gli affari economici della Diocesi;
—l'Economo della Diocesi;
—il Responsabile dell'Ufficio amministrativo diocesano;
—l'Avvocato generale della Curia;
—il Responsabile dell'Ufficio tecnico;
b. cinque membri scelti dall'Arcivescovo, in ragione della loro competenza in materie economiche, tecniche e giuridiche (can. 492, p. 1); essi durano in carica cinque anni e il loro mandato può essere rinnovato più volte (can. 492, p. 2).
Articolo 9
Al momento dell'accettazione della nomina, i Consiglieri garantiscono con giuramento davanti all'Ordinario di svolgere onestamente e fedelmente il proprio incarico (can. 1283, 1°).
IV. Presidente e segretario
Articolo 10
Il CAED è presieduto dal Pro-Vicario generale, cui è affidato il Settore per gli affari economici della Diocesi, come delegato dell'Arcivescovo (can. 492, p. 1).
Egli partecipa alle riunioni a titolo personale e non in rappresentanza dell'Arcivescovo.
Qualora l'Arcivescovo prenda parte alle sedute del CAED, ne assume anche la presidenza.
Art. 11
Spetta al Presidente, in particolare: convocare il Consiglio, moderare le sedute, sottoporre all'Arcivescovo i pareri e le delibere, mantenere i rapporti con gli altri organismi diocesani, in particolare con il Consiglio episcopale, il Consiglio presbiterale, il Collegio dei Consultori (CoCo) e gli Uffici di Curia.
Articolo 12
Il Segretario è nominato dall'Arcivescovo anche al di fuori dei membri del CAED. Egli dura in carica per cinque anni e il suo mandato può essere rinnovato.
A lui spetta, in particolare: redigere il verbale delle sedute, curare l'archivio del Consiglio, preparare il materiale relativo alle diverse pratiche in accordo con i competenti Uffici di Curia (cf. art. 15) e trasmettere agli stessi le delibere dopo l'approvazione dell'Arcivescovo .
V. Sessioni
Articolo 13
Il CAED si raduna normalmente ogni due settimane per esaminare le pratiche di sua competenza. Alcune sessioni possono essere dedicate allo studio di tematiche particolari. Convocazioni straordinarie, o in seduta congiunta con il CoCo, possono essere richieste dall'Arcivescovo, dal Presidente o da almeno cinque consiglieri
Articolo 14
Il Presidente può invitare a partecipare al CAED, senza diritto di voto, le persone la cui presenza riterrà utile ai fini della sessione.
In occasione della trattazione di questioni interessanti la Curia, il Presidente dovrà invitare il Moderator Curiae a titolo consultivo .
Articolo 15
Entro i tre giorni precedenti la sessione, il Segretario trasmette ai consiglieri l'ordine del giorno, firmato dal Presidente, e mette a disposizione presso l'Ufficio Amministrativo la documentazione relativa alle pratiche da esaminare.
Articolo 16
Le singole questioni vengono illustrate dal Presidente o, su suo incarico, dal Segretario o dal Responsabile dell'Ufficio competente.
Articolo 17
Quando il Consiglio è chiamato a offrire un parere o a dare il consenso circa una determinata questione, i consiglieri devono pronunciarsi formalmente tramite voto, su invito del Presidente.
Il voto viene normalmente espresso a voce o per alzata di mano.
Su richiesta dell'Arcivescovo o del Presidente o su istanza di almeno cinque consiglieri, il voto deve essere dato in forma segreta.
La deliberazione è approvata se, presenti la maggioranza assoluta dei consiglieri, ha ricevuto il voto favorevole della maggioranza assoluta dei presenti. In caso di parità di voti, prevale il voto del Presidente.
È diritto di ogni consigliere richiedere che venga messa a verbale, e possa così essere conosciuta dall'Arcivescovo, la propria opposizione motivata o qualunque altra osservazione.
I consiglieri sono tenuti ad astenersi dal voto quando si tratta di pratiche relative a enti da loro amministrati.
Articolo 18
I consiglieri sono tenuti al riserbo sulle questioni discusse in CAED.
Articolo 19
Conclusa la sessione, il Presidente, tramite il Segretario, trasmette al CoCo le pratiche di competenza comune.
VI. Verbale e presentazione all'arcivescovo
Articolo 20
Il verbale delle sessioni, redatto dal Segretario, viene presentato all'Arcivescovo dal Presidente.
Il verbale contiene, oltre alle pratiche di competenza solo del CAED, anche quelle di competenza comune con il CoCo e approvate dai due organismi.
VII. Procedura d'urgenza
Articolo 21
Qualora esistano ragioni d'urgenza per deliberare su una pratica di competenza del CAED e non sia possibile attendere la riunione programmata del Consiglio, si può ricorrere a una procedura speciale.
Sarà sufficiente, in questo caso, per l'approvazione della pratica, la firma del Presidente e di due consiglieri, o, in assenza del Presidente la firma di quattro consiglieri, previa la verifica delle condizioni di urgenza da parte dell'Ordinario diocesano.
Nella seduta successiva, il Presidente, o uno dei consiglieri firmatari della delibera d'urgenza, illustrerà al CAED la pratica in questione, motivando la decisione presa con carattere d'urgenza.
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Diocesi di Milano, Regolamento dei consigli parrocchiali per gli Affari economici
Regolamento del Consiglio parrocchiale per gli Affari economici
Art. 1 - Natura
I1 Consiglio parrocchiale per gli affari economici della parrocchia di ...., costituito dal Parroco in attuazione del can. 537 del Codice di diritto canonico, è l'organo di collaborazione dei fedeli con il Parroco nella gestione amministrativa della parrocchia.
Art. 2 - Fini
Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici ha i seguenti scopi:
a. coadiuvare il Parroco nel predisporre il bilancio preventivo dell'amministrazione ordinaria e straordinaria della parrocchia, elencando le voci di spesa prevedibili per i vari settori di attività e individuando i relativi mezzi di copertura;
b. approvare alla fine di ciascun esercizio, previo esame dei libri contabili e della relativa documentazione, il rendiconto consuntivo generale e dei vari settori di attività;
c. verificare periodicamente la corretta attuazione delle previsioni di bilancio;
d. esprimere il parere sugli atti di straordinaria amministrazione; tale parere dovrà essere allegato alle domande di autorizzazione presentate all'Ordinario;
e. curare l'aggiornamento annuale dello stato patrimoniale della parrocchia, il deposito dei relativi atti e documenti presso la Curia diocesana (can. 1284, p. 2, n. 9) e l'ordinata archiviazione delle copie negli uffici parrocchiali.
I Consigli per gli affari economici delle parrocchie affidate a Istituti religiosi faranno riferimento anche alle convenzioni stipulate tra la Diocesi e gli Istituti religiosi stessi a norma del can. 520.
Art. 3 - Composizione
Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici è composto dal Parroco, che di diritto ne è il Presidente, dai vicari parrocchiali e da almeno tre fedeli (sacerdoti, diaconi permanenti, religiosi, religiose e laici) nominati dal Parroco per due terzi direttamente e per un terzo su proposta del Consiglio pastorale. Dove il Consiglio pastorale per gravi motivi riconosciuti dall'Ordinario non è ancora costituito, i criteri per la formazione del Consiglio per gli affari economici sono stabiliti d'intesa con i Vicari episcopali di Zona. I consiglieri devono essere eminenti per integrità morale, attivamente inseriti nella vita parrocchiale, capaci di valutare le scelte economiche con spirito ecclesiale e possibilmente esperti in diritto o in economia. I loro nominativi devono essere comunicati alla Curia diocesana almeno 30 giorni prima del loro insediamento.
I membri del Consiglio parrocchiale per gli affari economici durano in carica 3 anni come il Consiglio pastorale parrocchiale. Il loro mandato può essere rinnovato.
Per la durata del loro mandato i consiglieri non possono essere revocati se non per gravi e documentati motivi accertati dalla Curia diocesana.
Con la vacanza della parrocchia il Consiglio parrocchiale per gli affari economici decade.
Art. 4 - Incompatibilità
Non possono essere nominati membri del Consiglio parrocchiale per gli affari economici i congiunti del Parroco fino al quarto grado di consanguineità o di affinità e quanti hanno in essere rapporti economici con la parrocchia.
Art. 5 - Presidente del Consiglio per gli affari economici
Spetta al Presidente:
a. la convocazione del Consiglio;
b. la fissazione dell'ordine del giorno di ciascuna riunione;
c. la presidenza delle riunioni;
d. il coordinamento tra il Consiglio per gli affari economici e il Consiglio pastorale.
Art. 6 - Poteri del Consiglio
Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici ha funzione consultiva. In esso tuttavia si esprime la collaborazione responsabile dei fedeli nella gestione amministrativa della parrocchia in conformità al can. 212, p. 3. Il Parroco ne ricercherà e ne ascolterà attentamente il parere, e ne userà come valido strumento per l'amministrazione della parrocchia.
In caso di grave divergenza fra il Parroco e il Consiglio la questione sarà sottoposta all'esame della Curia diocesana.
Ferma resta, in ogni caso, la legale rappresentanza della parrocchia che in tutti i negozi giuridici spetta al Parroco il quale è amministratore di tutti i beni parrocchiali a norma del can. 532.
Art. 7 - Riunioni del Consiglio
Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici si riunisce almeno una volta al quadrimestre, nonché ogni volta che il Parroco lo ritenga opportuno, o che ne sia fatta a quest'ultimo richiesta da almeno due membri del Consiglio, con motivazione e proposta dell'ordine del giorno.
Alle riunioni del Consiglio parrocchiale per gli affari economici potranno partecipare ove necessario, su invito del Presidente, anche altre persone in qualità di esperti.
Ogni consigliere ha facoltà di far mettere a verbale tutte le osservazioni che ritiene opportuno fare.
Art. 8 - Vacanza di seggi del Consiglio
Nei casi di morte, dimissioni, di revoca o di permanente invalidità di uno o più membri del Consiglio parrocchiale per gli affari economici, il Parroco provvede, entro 30 giorni, a nominare i sostituti. I consiglieri così nominati rimangono in carica fino alla scadenza del mandato del Consiglio stesso e possono essere confermati alla successiva scadenza.
Art. 9 - Esercizio
L'esercizio finanziario della parrocchia va dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno.
Alla fine di ciascun esercizio, e comunque entro il 31 marzo successivo, il bilancio consuntivo, debitamente firmato dai membri del Consiglio, sarà sottoposto dal Parroco al Vescovo diocesano.
Art. 10 - Informazioni alla comunità parrocchiale
Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici presenta annualmente al Consiglio pastorale parrocchiale una relazione sul bilancio consuntivo annuale e informa la comunità parrocchiale sull'utilizzazione delle offerte ricevute dai fedeli (can. 1287), indicando anche le opportune iniziative per l'incremento delle risorse necessarie per la realizzazione delle attività pastorali e per il sostentamento del clero parrocchiale.
Art. 11 - Validità delle sedute e verbalizzazioni
Per la validità delle riunioni del Consiglio è necessaria la presenza della maggioranza dei consiglieri.
I verbali del Consiglio, redatti su apposito registro, devono portare la sottoscrizione del Parroco e del segretario del Consiglio stesso e debbono essere approvati nella seduta successiva.
Art. 12 - Rinvio a norme generali
Per tutto quanto non contemplato nel presente Regolamento si applicheranno le norme del diritto canonico.
[1] Communicationes, 9 (1977) 269.
[2] P. Lombardía, La propiedad en el ordenamiento canónico, in «Ius Canonicum» (1962) p. 420; A. Mostaza, Derecho Patrimonial canónico, in «Derecho Canónico» I, Pamplona 1974, p.306.
[3] Va, inoltre, osservato che sono pubblici anche gli statuti particolari delle persone giuridiche pubbliche.
[4] Cf López Alarcón, M., Apuntes para una teoría general del patrimonio eclesiástico, in «Ius Canonicum» (1966) p. 140-144.
[5] Hervada, J., La relación de propiedad en el patrimonio eclesiástico, in «Ius Canonicum» (1962) p. 465.
[6] Alcuni autori parlano solo di amministrazione suprema ed amministrazione immediata. Ovviamente i tre livelli non esistono nell'ambito della Santa Sede, né degli enti che dipendono direttamente da essa, specialmente la diocesi e le comunità ad essa equiparate, per le quali il Libro V stabilisce una particolare normativa di organizzazione e di controllo (vedi n. 10, d).
[7] Il diritto particolare, specie il concordatario, può attribuire alla Conferenza episcopale di una nazione competenze più ampie di quelle stabilite dal Codice, come avviene in Italia per certe materie, ma anche in questi casi non si tratta di una competenza generale. Vid. Conferenza Episcopale Italiana, Istruzione in materia amministrativa del 1º Aprile 1992.
[8] Hervada, J., La relación de propiedad..., cit., p. 460.
[9] Nonostante fosse il criterio reale quello scelto per definire la competenza, il can. 1519 § 1 del vecchio Codice escludeva dalla competenza dell'Ordinario del luogo i beni "sottratti alla sua giurisdizione", malgrado che fossero situati nella sua circoscrizione. C’era quindi un criterio misto: locale e gerarchico.
[10] Queste facoltà ordinarie non sono incompatibili con quelle del Romano Pontefice, né per spiegarle è necessario ricorrere alle nozioni di delega o vicarietà (Bonet Muixí). Bisogna inoltre tenere presente che, normalmente, l'Ordinario a cui è soggetta una persona pubblica, è lo stesso che la costituisce, le concede la personalità giuridica (la erige) ed approva i suoi statuti (can. 114, 116 e 117). Il can. 315 poi stabilisce che le associazioni pubbliche di fedeli si reggono per i loro statuti “però sotto la superiore direzione dell’autorità ecclesiastica”.
[11] Tuttavia, a mio parere, più importante delle facoltà concrete è la possibilità, già accennata, che la Conferenza, in forza del diritto di ogni paese, possa divenire un'istanza coordinatrice delle relazioni economiche sovradiocesane. Il can. 1274, che dovremo esaminare, sarà il punto di partenza di molte e varie iniziative in tal senso, ma che saranno di solito frutto del consenso dei Vescovi interessati.
[12] Commento al can. 1257, in AA.VV., Código de Derecho Canónico. Edición anotada, 5ª ed. EUNSA, Pamplona 1992, p. 747.
[13] Per gli istituti di vita consacrata vedi. can. 634-640.
[14] Nell'ambito di questo regime generale, il Codice fissa alcune norme specifiche per gli istituti religiosi (can. 634-640) e secolari (can. 718), le società di vita apostolica (can. 741) e le associazioni pubbliche (can. 319).
[15] Cf P. Lombardía, La propiedad en el ordenamiento canónico, in «Ius Canonicum» (1962) p. 415-416. D'altra parte, anche se i beni sacri non sono esclusi dal commercio in quanto tali, lo è però la loro condizione sacra, che è spirituale, e quindi trafficare con essa sarebbe simonia; perciò il can. 1539 del CIC ‘17 proibiva tassativamente di stabilire il prezzo di una cosa sacra tenendo conto della loro consacrazione o benedizione.
[16] Riguardo alle immagini preziose, l'Ordinario deve dare licenza scritta per il restauro dopo aver consultato gli esperti (can. 1189), e non possono essere trasferite definitivamente da una chiesa senza licenza della Santa Sede (can. 1190 § 3).
[17] Per una breve storia legislativa e dottrinale, vid. M. López Alarcón, commento al c. 1257, in AA.VV., Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, vol. IV/1, Pamplona 1996, p. 55-57.
[18] Per quanto riguarda le Chiese orientali, cf CCEO can. 1009 § 2.
[19] Perlado, P.A., Sugerencias para una visión moderna del Derecho patrimonial canónico, in «Ius Canonicum» (1969) pp. 397-400
[20] Communicationes, 1973, p. 96.
[21] Anche se si parlava di bona in Ecclesia (can. 18) e di bona Ecclesiae (can. 43).
[22] C’è una certa riluttanza a chiamare privati questi beni per il fatto che sono assegnati a finalità ecclesiali e quindi non strettamente private; sta di fatto che il soggetto cui appartengono, e della cui natura partecipano, si dice persona giuridica privata.
[23] Vedi D. Tirapu, commento al c. 1259, in AA.VV., Comentario exegético al Código de Derecho Canónico, vol. IV/1, Pamplona 1996, p. 68-70.
[24] Non ci soffermeremo qui su altre fonti, quali le sovvenzioni o aiuti statali o le rendite del patrimonio ecclesiastico.
[25] Nei lavori di elaborazione del CIC emerse senza dubbio questa scelta, quando si decise -non senza contrasti- d'invertire l'ordine dei can. 1262 e 1263, al fine di lasciare chiara qual'è la via ordinaria di cercare l'aiuto dei fedeli (quella del can. 1262), senza escludere la possibilità di esigere tributi (can. 1263) (Relatio complectens..., 1981, p. 281-283; Communicationes, 1984, p. 28-30). Cf D, Tirapu, commento al c. 1260, in AA.VV., Comentario exegético...cit., vol. IV/1, Pamplona 1996, p.72.
[26] Si ricordi che sotto il nome di Chiesa si intende qualsiasi persona giuridica pubblica ecclesiastica (can. 1258).
[27] Nell'ambito di queste offerte, con una normativa specifica, sono comprese le pie volontà di cui ci occuperemo alla fine di queste dispense (nn. 14 e 15).
[28] Cfr. Decr. della Cong. per il Clero del 22 febbraio 1991; P. Gefaell, A proposito del decreto sulle Messe plurintenzionali, in «Ius Ecclesiae» (1991), p. 760-765.
[29] Cfr. Risposta del CPI, del 23.IV.1987, AAS 79 (1987) 1132).
[30] Si è voluto così rispettare i sistemi impositivi tradizionali di alcuni paesi, ad esempio quelli della Germania Federale e dell'Austria (Kirchensteuersystem e Kirchenbeitrag), che sono ispirati ad un modello di collaborazione dello Stato al sostentamento della Chiesa.
[31] La Risposta del CPI del 20.V.1989, AAS 81 (1989) 991, ha determinato che non sottostanno alla giurisdizione del Vescovo diocesano "le scuole esterne degli Istituti religiosi di diritto pontificio".
[32] Cfr. Relatio complectens..., (1981) p. 281.
[33] Dal testo legale non risulta chiaro se questo tributo si possa imporre anche alle persone giuridiche pubbliche. Il senso letterale sembra escluderle (ceteris): occorrerà comunque valutare la gravità della situazione e, soprattutto, se già esista o meno nella diocesi il tributo ordinario.
[34] Di fatto e per circostanze storiche, principalmente a causa degli incameramenti del secolo scorso, il sistema dei benefici era scomparso in molte parti, e in altre non è mai esistito. Inoltre lo schema del beneficio -una dote immobiliare produttiva di rendite idonee al sostentamento del titolare dell'ufficio- non sembra adeguato alle condizioni economiche attuali.
[35] In Spagna questo processo è oggi regolato dal "Segundo Decreto General" della Conferenza Episcopale Spagnola (1.XII.1984), art. 9-15.
[36] Quanto si dirà della diocesi ha valore anche per le circoscrizioni ecclesiastiche di natura simile alla diocesi.
[37] Così si spiegano alcune modifiche allo Schema del 1977 che -secondo l'opinione di molti consultori- attribuiva eccessive competenze alle Conferenze Episcopali.
[38] I beni appartenenti alla diocesi possono essere distribuiti in diversi istituti, fondi, fondazioni, ecc., ma essendo beni diocesani sarà sempre il Vescovo il loro amministratore e gestore. Ci possono quindi essere persone giuridiche delle quali il Vescovo diocesano è l’amministratore, perché i loro beni appartengono alla diocesi.
[39] Anche tra queste si devono distinguere quelle che sono istituzioni proprie della diocesi (parrocchie, seminari, scuole diocesane), da quelle che sono iniziative autonome di ambito diocesano, costituite come persone pubbliche (conventi, scuole cattoliche, confraternite). La loro rispettiva dipendenza dal Vescovo diocesano (e la responsabilità di questi nei loro confronti) sono differenti.
[40] Cf Z. Combalía, commento al c. 1274, in AA.VV., Comentario exegético...cit., vol. IV/1, Pamplona 1996, p.111-114. Questo modello non pretende di raggiungere l'uniformità patrimoniale delle diocesi, non solo perché consente molte possibilità, ma anche perché si presenta come una formula sussidiaria, da adoperare laddove con altri sistemi non siano opportunamente garantite le responsabilità economiche della diocesi.
[41] Il "Segundo Decreto General" della Conferenza Episcopale Spagnola, dell' 1-XII-1984 ha ritenuto che questo fondo per il sostentamento del clero «si possa configurare, a giudizio del Vescovo diocesano, sia come pia fondazione autonoma secondo il can. 115 § 3, sia come ente, i cui beni saranno intestati a nome della diocesi, anche se con piena autonomia contabile» (art. 10). In Italia l'Accordo con lo Stato (1984), prevede come necessaria l’erezione di questi istituti e la possibilità di costituirne di interdiocesani.
[42] Difatti sia in Italia sia in Spagna sono stati eretti un Istituto nazionale per il sostentamento del clero, dipendente dalle rispettive Conferenze episcopali, che ha fra l'altro lo scopo di distribuire equamente tra le diocesi gli apporti statali.
[43] Questa circostanza dovrà essere valutata anche per gli altri chierici quando percepiscano una retribuzione per gli stessi motivi.
[44] In Spagna questo punto è regolato a livello nazionale dal "Decreto General de la CEE sobre algunas cuestiones especiales en materia económica" (1.XII.1984). Anche in Italia eiste una regolamentazione in materia fatta dalla CEI nella delibera nº 58 contenente il “Testo unico delle disposizioni di attuazione delle norme relative al sostentamento del clero che svolge servizio in favore delle diocesi” entrata in vigore il 1º sttembre 1991, in «Notiziario C.E.I.», (1991), p. 143-158.
[45] Cfr. Relatio complectens..., (1981) p. 285.
[46] Vid. Z. Combalía, commento al c. 1275, in AA.VV., Comentario exegético...cit., vol. IV/1, Pamplona 1996, p.
[47] Come si vede gli enti che si possono dire “diocesani” entrano tutti nella categoria delle persone giuridiche soggette al Vescovo diocesano come loro Ordinario (cf can. 1276 § 1, 1292 § 1), ma l’intensità di questa sottomissione può variare nella pratica: ci sono enti, per dire, di proprietà diocesana (come l’istituto per il sostentamento del clero, o qualsiasi fondazione autonoma costituita con beni appartenenti al patrimonio diocesano), questi enti sono a tutti gli effetti della diocesi e il Vescovo diocesano è (ex officio) il loro rappresentante e amministratore immediato, gli organi di amministrazione che possano avere agiscono a nome e rappresentanza del vescovo, come l’economo diocesano. Ci sono poi le persone giuridiche facenti parte della struttura istituzionale diocesana (parrocchie, seminario, chiese rettorali) il cui patrimonio è distinto a quello diocesano e che hanno i propri rappresentanti e amministratori, ma che sono soggette al Vescovo a norma del diritto universale nel senso che questi può erigerle, dividerle, sopprimerle, nominare i loro dirigenti, ecc. e quindi incidere intensamente nella loro vita anche economica. Ci sono poi enti diocesani la cui dipendenza dall’autorità diocesana sarà più o meno intensa a seconda della loro costituzione e dei loro statuti (da una scuola a una università diocesana, una casa di esercizi della diocesi, la Caritas, una fondazione eretta per sovvenire a certe necessità, un ospedale), essi possono tanto essere di intera e completa proprietà della diocesi e quindi semplici parti del patrimonio di essa, oppure godere di una loro autonomia patrimoniale e organizzativa. Ci sono infine enti di diritto diocesano sorti dalla iniziativa dei fedeli ma eretti in persona giuridica pubblica (una confraternita o altra associazione di fedeli, un istituto o convento religioso e le loro opere apostoliche) i quali si reggono secondo i loro statuti benché questi debbano essere approvati dal Vescovo diocesano e rispettare le leggi universali sull’amministrazione dei beni ecclesiastici.
[48] Vedi in appendice un esempio di statuti per questo consiglio.
[49] E' opportuno chiedersi se l'economo possa essere costituito amministratore anche degli istituti e dei fondi diocesani che si costituiscono in base al can. 1274. A rigore gli istituti eretti dovranno avere propri amministratori, mentre è ovvio che all’economo spetta l’amministrazione della la massa diocesana per le varie necessità. Il Diritto non stabilisce né proibisce nessuna concreta soluzione, per cui tutto è rimesso al giudizio del Vescovo. Comunque una certa unità di gestione sembra conveniente se, come è previsto nel CIC, il bilancio preventivo diocesano è unico.
[50] Tuttavia indirettamente, attraverso servizi di consulenza o supporto tecnico, per adempienze concordatarie o a motivo di sistemi di cooperazione interdiocesana, ecc. in certi luoghi la Conferenza episcopale esercita di fatto competenze economiche che vanno oltre quelle stabilite dalla legge universale.
[51] Elementi di Diritto patrimoniale canonico, Giuffrè, Milano 1997, ancora in fase di stampa, per cortesia dell’Autore mi sono avvalso del testo dattilografico.
[52] Difatti quasi tutti gli autori studiano le alienzioni e gli altri atti di disposizione come atti di amministrazione ordinaria o straordinaria.
[53] Su questo problema vedi V. De Paolis, Negozio giuridico, «quo condicio patrimonialis personae iuridicae peior fieri possit» (Cf c. 1295), in «Periodica», 83 (1994), p. 493-528.
[54] Relatio complectens..., (1981), pp. 285-286.
[55] Vedi. D. Andrés cmf, Il diritto dei religiosi, 2ª ed., Roma 1996, p. 227-233.
[56] Nell'ambito civile ai controlli canonici non sempre viene riconosciuta efficacia. In questi casi, dal momento che l’alienazione è civilmente valida, entra in gioco il can. 1296 con la possibilità di intentare anche azione per il risarcimento dei danni “ad Ecclesia iura vindicanda”.
[57] Cf CIC ‘17 can. 1529.
[58] P. Lombardía, El canon 1.529: problemas que en torno a él se plantean, in «Escritos de Derecho canónico», I, Pamplona 1973, p. 18-20.
[59] Commento al c. 1290, in AA.VV., Comentario exegético...cit., vol. IV/1, Pamplona 1996, p. 152.
[60] Per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica cfr. i can. 638 §§ 3 e 4, 718 e 741.
[61] L’asegnazione di un certo bene al patrimonio stabile può risalire all’atto di costituzione della stessa persona, ai suoi statuti, alla natura delle cose o ad una disposizione di legge, alla volontà del donante o ad una decissione degli organi direttivi della stessa persona. Cf J. Mantecón, commento al can. 1291, in AA.VV., Comentario exegético...cit., vol. IV/1, Pamplona 1996, p. 154-155.
[62] Al di sotto della somma minima fissata non occorre alcuna licenza, ma gli statuti possono stabilire, per la validità, certe condizioni.
[63] “Così come la dicitura pia volontà fa riferimento piuttosto alla origine dell’atto, radicato alla fin fine nell’autonomia privata del donante spinto da motivazioni soprannaturali, il termine cause pie, più spesso adoperato nei canoni del Titolo IV, fa riferimento all’obiettivo da raggiungere” (J.M. Vázquez García-Peñuela, Introducción al Titolo IV del Libro V, in AA.VV., Comentario exegético...cit., vol. IV/1, Pamplona 1996, p. 174.
[64] Ad esempio: se il testatore lascia una elemosina per un convento o fa al suo erede incarico di far celebrare un certo numero di sante Messe per la sua anima, una volta data l’elemosina o celebrate le messe la volontà pia è compiuta e cessa.
[65] A. Sols Lucia, La fundación pía no autónoma en el actual CIC, in REDC 50 (1993) p. 521.
[66] A seguito della modifica della delibera n. 20, decisa dall'assemblea CEI del maggio 1990, la somma minima é stata elevata a lire 300 milioni.
[67] A seguito della modifica della delibera n. 38, decisa dall'assemblea CEI del maggio 1990, il comma c., va così modificato: «la stipulazione di contratti di locazione di immobili appartenenti alla diocesi o ad altra persona giuridica amministrata dal Vescovo diocesano, di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20, eccetto il caso che il locatario sia un ente ecclesiastico».