FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO

DIRITTO ECCLESIASTICO DELLO STATO

Traccia per lo studio delle lezioni 1 a 7

© Prof. José T. Martín de Agar

 

Lezione 1. Concetto di Diritto Ecclesiastico dello Stato

1. La dimensione religiosa dell’uomo come fenomeno sociale e come fattore giuridico.

Religione e diritto ecclesiastico

Diritto ecclesiastico dello Stato è il diritto civile riguardante il fenomeno religioso.

L’uomo ha un dimensione religiosa che fa parte della sua natura, questo è un fatto di esperienza sia personale che storica o culturale. La religione come tale comprende alcuni di questi elementi:

       – adesione a un credo o insieme di convinzioni riguardanti Dio, l’uomo e i loro rapporti

       – un culto o insieme di atti e riti di venerazione alla divinità

       – osservanza di precetti religiosi: manifestazione di sottomissione a Dio: digiuno, giorni festivi, indumenti e vestiti, copricapo, ecc.

       – una morale o codice di comportamento personale e sociale.

La religione ha una dimensione relazionale dell’uomo con Dio e in questo aspetto è qualcosa di intimo che di per se non ha niente a che vedere col diritto, ma ha anche una dimensione sociale legata alla stessa socialità dell’uomo; questa dimensione si manifesta in differenti modi:

       – in quanto la religione, come detto prima, implica una etica che tende a configurare il comportamento dell’uomo dandole un ideale di vita anche sociale, per cui anche la stessa società civile ne riceve l’influsso. Difatti ogni civiltà conosciuta nasce e si fonda su una religione: ebraica, cristiana, musulmana…

       – in quanto la religione è vissuta anche in maniera collettiva poiché coloro che seguono la stessa religione di solito si associano per aiutarsi a viverla, per diffonderla, per gli atti culto, ecc. dando luogo a organizzazioni fondate sulla condivisione dello stesso credo o religione (chiese, comunità, confessioni o denominazioni religiose).

Ora questo influsso della religione nella condotta sociale (personale e collettiva) delle persone la mette i rapporto con il diritto, fa di essa un fattore giuridico nel senso che orientando o determinando il comportamento degli uomini da luogo a rapporti di natura sociale che hanno dimensione giuridica.

Una parte di tali rapporti si svolgono ed esauriscono all’interno delle stesse confessioni dando luogo a un diritto interno delle confessioni (diritti religiosi) dei quali il più importante è il diritto canonico cioè il diritto interno della Chiesa cattolica.

Ma tante manifestazioni sociali e giuridiche della religione possono avere anche delle conseguenze nella vita civile dando luogo a rapporti rilevanti per il diritto secolare, basti pensare al matrimonio religioso, alla proprietà di un luogo di culto, all’insegnamento religioso o all’apostolato.

Sono queste manifestazioni del fattore religioso rilevanti per la società politica quelle che costituiscono l’oggetto del diritto ecclesiastico[1].

Tuttavia, il concetto e l’oggetto materiale di diritto ecclesiastico sono argomenti connessi e controversi: ogni nozione di diritto ecclesiastico cerca di precisare il suo oggetto. Ci sono definizioni di tipo piuttosto normativista: il diritto ecclesiastico come l’insieme delle norme di uno Stato che riguardano il fattore religioso[2]; altre mettono in rilievo l’oggetto del diritto ecclesiastico: la regolamentazione civile del fenomeno religioso[3]; altre precisano ancora che tale fenomeno si concretizza nella libertà religiosa e nello statuto civile delle confessioni religiose (Hervada ritiene che ci sia qui confusione fra un diritto fondamentale, che certo debe informare tutto il diritto ecclesiastico di uno Stato democratico, e il diritto ecclesiastico stesso che si occupa di molte altri argomenti che non sono la libertà religiosa: ibid.); altre prendono in considerazione –per lo meno prevalente– uno di questi soggetti: la libertà di coscienza oppure i rapporti fra Stato e confessioni religiose[4]; nessun autore comunque tralascia alcuno dei due poli della discussione.

2. Evoluzione dell’espressione Diritto Ecclesiastico.

Domanda: Perché si chiama ‘Diritto ecclesiastico’?

‘Diritto ecclesiastico’ è una espressione che ha avuto e ha diversa significazione secondo il contesto in cui viene usata. Si deve a De Luca la chiarificazione dei vari significati che essa ha assunto lungo la storia[5].

Fino al consolidamento degli Stati moderni (s. XVI) diritto ecclesiastico equivale a diritto canonico cioè a diritto della Chiesa: le regole di giustizia di origine divina o ecclesiastica.

La frammentazione dell’unità europea e della cristianità con la Riforma protestante, porta con se la distinzione tra diritto canonico e diritto ecclesiastico. L’idea protestante che la regolamentazione delle materie ecclesiastiche spetta al principe porta ad un diritto civile sugli affari ecclesiastici: diritto che viene emanato dal potere civile ma che può anche accogliere e dare forza a norme di origine ecclesiale, sempre tuttavia per volere dell’autorità civile. Il fenomeno riguarda soprattutto i paesi protestanti, ma anche nei regni cattolici si sviluppa una tendenza parallela che viene conosciuta col nome di giurisdizionalismo: il principe che si ritiene competente per regolamentare gli affari ecclesiastici. Diritto ecclesiastico è il diritto riguardante la confessione dominante composto sia da norme civili che da norme ecclesiastiche.

Con il trionfo delle rivoluzioni liberali si consolidano le idee che lo Stato sia l’unica fonte di diritto e della separazione tra religione e ordine civile. Quindi il diritto ecclesiastico diventa sempre più di fonte puramente statuale: il ramo speciale del diritto dello Stato che regolamenta la vita religiosa delle persone e delle confessioni in ambito civile, anche senza tenere teoricamente conto delle norme interne delle confessioni (del diritto canonico nel caso della Chiesa cattolica). Ci sono poi ordinamenti civili in cui il fattore religioso non viene regolato da un diritto speciale ma dal diritto comune, per cui le confessioni ad es. si devono costituire come le altre corporazioni o fondazioni private; questo sistema è tipico soprattuto degli USA, tuttavia un certo riconoscimento delle particolari caratteristche dei rapporti giuridici che hanno come origine la religione sempre c’è.

3. Il Diritto Ecclesiastico come parte del diritto statuale e come scienza. Speciale riferimento alla Chiesa cattolica.

Questo ramo del diritto civile riguardante il fatto religioso ha una sua autonomia in quanto tiene conto della specificità del fenomeno religioso e quindi delle sue manifestazioni rilevanti per la vita civile.

Come scienza, il diritto ecclesiastico non si distingue soltanto per la materia che viene presa in considerazione, cioè la religione, e nemmeno per il fatto che essa venga disciplinata dal diritto secolare, cioè che la fonte di tale parte del diritto sia lo Stato, ma ancora perché tale regolamentazione viene fatta tenendo conto della specificità propria del fenomeno religioso, dando luogo ad un diritto speciale. Il che da origine e richiede di certi principi d’ispirazione che sono la traduzione giuridica delle esigenze di giustizia inerenti a tale specificità, nelle manifestazioni sociali (personali e collettive) della religione, .

Non è però un ramo del diritto come il civile, l’amministrativo, l’internazionale o il processuale, che hanno come oggetto un genere particolare di rapporti giuridici, bensì una specialità che ha per oggetto una materia particolare, nel caso la religione, come il diritto agricola, sanitario o doganale[6].

In questo senso, benché la nostra disciplina riguarda come tale il vasto campo delle manifestazioni civilmente rilevanti della religione, a noi ci interesserà centrare la nostra attenzione su quelle che sono le più consistenti nella nostra area culturale, le cui radici religiose sono per lo più quelle cristiane. Difatti sia per la presenza e radicamento sociologico, sia per la lunga storia di rapporti con lo Stato, il diritto ecclesiastico è nato sulla base dei rapporti delle autorità civili con le chiese cristiane e più concretamente con quella cattolica, la quale per la spiccata consistenza della sua costituzione ed organizzazione e del suo diritto è di fatto un soggetto principale del diritto ecclesiastico nei paesi dove la nostra disciplina si è maggiormente sviluppata.

4. Politica religiosa dello Stato e Diritto Ecclesiastico.

Domanda: Ché distinzione e rapporto c’è fra diritto e politica?

Orbene la rilevanza civile del fatto religioso non dipende soltanto da questo fatto, ma anche da come lo Stato si pone di fronte ad esso. Indubbiamente l’atteggiamento dell’autorità nei confronti della religione si riflette nel relativo ordinamento.

Se lo Stato considera la religione (e i gruppi religiosi) come fattore prevalentemente politico (da promuovere o da bandire), si sentirà chiamato a organizzare la vita religiosa dei cittadini, sarà sua pretesa regolamentare da protagonista molti aspetti di essa, anche se in realtà non rilevanti per la convivenza civile. Se invece considera la religione come una dimensione della vita umana che in quanto tale esula dalle sue competenze, allora la sua presenza in questo ambito della vita personale e sociale sarà limitata dal rispetto per la libertà dei cittadini e dell’autonomia delle confessioni.

Appare chiaro dalla esperienza storica che questa alternativa è in rapporto con la forma di organizzazione politica della società civile e con il grado di riconoscimento effettivo della libertà religiosa. L’affermarsi della democrazia e dei diritti umani comporta un ruolo limitato dei pubblici poteri nei confronti della religione, ruolo che ha come obiettivo principale non già la religione in quanto tale ma piuttosto il riconoscimento, promozione e tutela della libertà religiosa. Al punto che per taluni autori sarebbe questo diritto l’oggetto della nostra materia.

5. Il fatto religioso nel Diritto Internazionale

Sebbene il diritto ecclesiastico si afferma ed è tuttora un ramo dell’ordinamento statuale, la crescita dei rapporti internazionali, specie in tema di promozione dei diritti dell’uomo, ormai considerati al di sopra della singola sovranità nazionale, va determinando un insieme sempre più vasto di regole e di giurisprudenza di ordine internazionale riguardanti il fatto religioso[7].

Che si possa poi parlare o meno di un diritto ecclesiastico internazionale (e non solo statale) dipende dal punto di vista con cui questo andare degli eventi venga considerato. Da un lato persiste uno spiccato protagonismo degli Stati come soggetti del diritto internazionale, per cui alla fine saranno questi ad accettare e tradurre nel proprio ordinamento le regole e decisioni sorte in ambito internazionale. Ma un’attenta osservazione rivela che tale assetto è in mutamento; si rivela sempre più limitata la sovranità degli Stati, mentre si affaccia invece la sovranità della persona e quindi della sua immediata soggettività internazionale, specie per ciò che riguarda la difesa e promozione dei suoi diritti fondamentali.

Stanno poi le organizzazioni politiche di Stati come la UE; il sorgere di soggetti politici sovranazionali e per certi versi investiti di sovranità, che possono regolamentare essi stessi (e non già gli Stati membri) certe manifestazioni giuridiche del fattore religioso e le attività delle confessioni.

Nel capitolo dedicato al diritto di libertà religiosa verranno quindi esaminati con ampiezza i relativi documenti di ordine internazionale.

Lezione 2. Soggetti giuridici e fattore religioso

1. Ordinamento civile e fattore religioso

Domanda: È lo Stato soggetto della religione? Perché?

Abbiamo visto che il diritto ecclesiastico è la regolamentazione che l’ordinamento civile fa della religione. Bisogna però insistere nella prospettiva formale tipica del diritto ecclesiastico: non li interessa la religione in sé ma la religione in quanto origine di rapporti ed interessi giuridici nell’ordine civile o con riflessi in esso[8], cioè in quanto riguarda il bene comune sociale.

Il diritto ecclesiastico collega quindi due materie: la religione e l’ordinamento civile. Ma lo studio dei soggetti del diritto ecclesiastico richiede in primo luogo distinguere i soggetti della religione e soggetti del diritto ecclesiastico. Essi sono formalmente diversi: i singoli cittadini (singolarmente o associatamente) vivono e praticano la religione, sono loro che ciò facendo danno origine alle situazioni e rapporti giuridici con rilievo nel civile, che compete allo Stato tutelare e regolamentare.

Lo Stato invece non è come tale soggetto della religione, egli non crea né vive la religione né è membro di una confessione né interviene come parte in rapporti religiosi. Storicamente non è sempre stato così in quanto il monismo ed il confessionismo di Stato facevano di esso un soggetto della religione, sia che facesse proprie le dottrine e le attività di una certa confessione, sia mettendola al servizio degli interessi politici o comunque intervenendo di propria autorità negli affari ecclesiastici.

Oggi il titolo in base al quale lo Stato si interessa della religione sta nel fatto che egli intende regolare tutti i rapporti che si verificano nella società e quindi anche quelli derivanti dalla pratica religiosa dei cittadini e dall’attività dei gruppi religiosi.

In questa prospettiva lo Stato è un soggetto principale del diritto ecclesiastico in quanto fonte positiva di esso. Allo Stato spetta di ordinare giustamente le espressioni pubbliche della religione nella società civile e i rapporti giuridici che ne derivano.

2. La persona umana nel Diritto Ecclesiastico

La persona è il soggetto principale della religione e quindi del diritto ecclesiastico. È il cittadino credente (oppure no), che con le sue scelte e attività in questo campo crea rapporti significativi dal punto di vista giuridico. Alla persona appartiene in primo luogo il diritto di libertà religiosa che è il tema centrale della nostra disciplina, benché ci siano altri argomenti che soltanto indirettamente si collegano alla libertà religiosa.

È importante per il diritto ecclesiastico il modo come lo Stato considera la persona e i suoi diritti. Uno Stato democratico considera tutti come cittadini uguali in diritti e doveri e quindi non fa distinzioni fondate sul fatto che gli uni siano fedeli di una certa religione e gli altri no. In altri momenti della storia il potere civile si considerava tenuto a tutelare e promuovere una religione (quella di Stato) e come conseguenza trattava in modo differente i cittadini a seconda della confessione cui appartenevano. Oggi è corrente che le costituzioni vietino di fare discriminazione fondata sulla religione, addirittura di raccogliere informazioni a riguardo.

3. Dimensione collettiva dell’interesse religioso: confessioni e gruppi religiosi.

Ma il fenomeno religioso non è soltanto individuale, ha bensì una dimensione comunitaria per la natura sociale sia dell’uomo che della religione stessa. Perlomeno le grandi religioni sono costituzionalmente comunitarie, soggetti collettivi della religione.

Difatti, le principali manifestazioni della religione rilevanti per la vita civile sono conseguenza della vita e attuazione dei gruppi religiosi, delle confessioni: la loro organizzazione, il culto, il magistero, l’osservanza di precetti religiosi, i ministri, le comunità e associazioni interne ad una confessione, le diverse opere di apostolato, il finanziamento, ecc. sono le materie specifiche sulle quali si sviluppa il diritto ecclesiastico di un paese.

In realtà il diritto ecclesiastico sorge come regolamentazione delle confessioni da parte dell’ordinamento dello Stato, il quale non può non tenere conto dei gruppi che, come la Chiesa cattolica in molte aree, hanno un forte radicamento sociale e una spiccata e coerente organizzazione propria. Da qui, come visto, il nome di ‘diritto ecclesiastico’.

Questo interesse statale può essere di diverso orientamento: sia per cercare di dominare e controllare i gruppi religiosi sottoponendoli a misure restrittive o di vigilanza della loro attività, sia accordandoli statuti giuridici differenti a seconda che si tratti della religione di Stato o meno, sia riconoscendoli come soggetti anch’essi della libertà religiosa e quindi tutelando le loro specifiche attività e finalità.

Ad ogni modo si vede che qui il concetto di confessione religiosa è importante per distinguere queste da altre aggregazioni sociali. Si può dire che una confessione è un gruppo indipendente costituito e organizzato sulla base di una religione. Sorge allora il problema di determinare giuridicamente cosa sia o meno religione; il moltiplicarsi di nuovi movimenti religiosi ha reso più difficile la questione: una risposta teorica non è facile, spesso la frontiera tra gruppi religiosi e altri deve essere tracciata dalla giurisprudenza, sulla base di quello che comunemente si intende che integra la religione: una dottrina riguardante la trascendenza, un culto esteriore comunitario, l’osservanza di certi precetti, comportamenti o stili di vita improntati alla religione. Con logico prammatismo la giurisprudenza della Corte Superma degli Stati Uniti considera che “The essence of religion is belief in a relation to God involving duties superior to those arising from any human relation”[9]; ma il concetto Dio va inteso in senso largo, cosicchè su questa scia si evolve avvicinndo religione e credo (religion e belief) intesi come una sincera e significativa convinzione che ha nella vita di chi la posiede la stessa importanza di Dio per chi crede in Lui[10] 

 

Lezioni 3 – 7  I principi del diritto ecclesiastico[11]

Il diritto ecclesiastico civile si sta sviluppando come disciplina scientifica e accademica in molti paesi, soprattutto del mondo latino, e ciò attesta la sensibilità e maturità con cui si intendono affrontare gli argomenti di natura giuridica riguardanti la incidenza della religione nella convivenza civile.

L’affermazione di qualsiasi area di specialità giuridica come un ramo particolare del diritto, richiede tra l’altro definire il suo oggetto specifico e stabilire i principi particolari che la distinguono delle altre, la ispirano e le danno una propria fisionomia[12].

Si è molto discusso su quale sia l’oggetto proprio del diritto ecclesiastico. La storia e la dottrina insegnano che c’è stata una evoluzione da una visione istituzionale, che prende in considerazione soprattutto i rapporti tra diritto civile e confessioni religiose, a un diritto ecclesiastico inteso come legislatio libertatis il cui oggetto quindi sarebbe principalmente la libertà religiosa o di coscienza.

In pratica queste impostazioni non si escludono anzi, al diritto ecclesiastico interessano tutte la manifestazioni della dimensione religiosa dell’uomo in quanto siano in rapporto con il giusto ordine della comunità civile. Come dice Hervada, “che il Diritto Ecclesiastico studia il fenomeno religioso da una prospettiva statale vuol dire, in linea di principio, che allo Stato interessa tale fenomeno nella misura in cui esso incide nella comunità politica”[13].

Dunque la prima e fondamentale caratteristica del diritto ecclesiastico è che esso riguarda la religione. Non però la religione come tale (come modo di intendere e vivere il rapporto dell’uomo con Dio), ma le particolari relazioni e conseguenze giuridiche che la pratica religiosa dei cittadini e delle confessioni determinano nell’ordine civile. Come spiega ancora Hervada il diritto ecclesiastico non ha “come oggetto il fenomeno religioso come tale, bensì la proiezione civile del fattore religioso”[14], ossia il diritto ecclesiastico guarda la religione da una prospettiva particolare: in quanto origine di rapporti giuridici rilevanti nell’ordine civile.

Ma questa prospettiva (che in fondo è comune con altre manifestazioni sociali della persona) viene specificata ancora, nel senso che il diritto ecclesiastico si può considerare un ramo particolare del diritto civile nella misura in cui tiene conto di ciò che la dimensione religiosa dell’uomo ha di specifico e proprio, cioè in quanto riconosce la religione come causa di atteggiamenti e comportamenti, di modi di vita e di aggregazioni tipici e caratteristici che meritano un regime giuridico particolare e adeguato.

Il che comporta un modo di porsi lo Stato di fronte al fatto religioso e di capire il suo ruolo in rapporto ad esso; ruolo che non è (perlomeno oggi) quello di soggetto della religione né quello di guida o organizzatore della vita religiosa dei cittadini, ma semplicemente quello di Stato, ovvero l’insieme di poteri e istituzioni chiamati a promuovere e tutelare l’ordine giusto della comunità civile. Sotto questo unico titolo egli è legittimato a regolamentare il fenomeno religioso.

1.I principi di diritto ecclesiastico

Sono quei principi giuridici generali che definiscono la posizione dello Stato riguardo alla vita religiosa (individuale e collettiva) dei cittadini e che ispirano il suo operato in rapporto ad essa. Costituiscono l’espressione giuridica dei valori superiori che lo Stato intende attuare, promuovere e proteggere in tema di religione[15].

In questo senso le funzioni che svolgono i principi del Diritto ecclesiastico di uno Stato sono simili a quelle dei principi che guidano altri rami dell’ordinamento.

In primo luogo sono principi che ispirano i diversi aspetti dell’agire statale (legislativo, amministrativo o giudiziale) e lo orientano nel cogliere le note tipiche del fattore religioso e le esigenze di una trattazione giuridica adeguata ad esse.

I principi svolgono anche il ruolo di integrare sistematicamente il diritto dello Stato in materia di religione, conferendoli l’unità,  coerenza e compiutezza che fanno delle norme riguardanti tale materia un sistema organico e completo, cioè un ordinamento particolare.

Di conseguenza i principi funzionano anche come criteri ermeneutici che servono a interpretare ed armonizzare le diverse norme riguardanti la religione e a riempire le lacune dell’ordinamento.

Come dice Viladrich i principi del diritto ecclesiastico non appaiono necessariamente enunciati nella Costituzione dello Stato, sono piuttosto deduzioni di ordine scientifico (tratte dalla dottrina) a partire dalla analisi del complesso normativo civile riguardante il fattore religioso.

Certamente tale analisi deve tener conto in primo luogo delle norme costituzionali, nelle quali spesso si trovano prese di posizione e riferimenti espliciti ai valori che si intendono promuovere e tutelare in tema di religione. Tuttavia sarebbe incompleta una ricerca dei principi del diritto ecclesiastico che si limitasse all’esame delle norme costituzionali, senza tener conto dell’effettivo sviluppo normativo e giurisprudenziale delle medesime, che rivelano lo spirito e i criteri (i principi, appunto) secondo i quali i dettati costituzionali vengono attuati in pratica[16].

D’altra parte, essendo i principi una sorte di ponte tra realtà sociale e diritto, ovvero la traduzione giuridica dei valori realmente presenti, sentiti, operanti nella convivenza sociale, la loro definizione e portata “prospetta peculiari questioni di metodo, dovendosi per così dire accertare la vigenza o l’effettività nel diritto positivo di un principio essenzialmente politico, e quindi metagiuridico… Ne deriva la necessità di una ricerca capace di cogliere correttamente gli ineludibili nessi fra jus positum e valori o principi metagiuridici che, storicamente, non soltanto ne costituiscono il fondamento e la legittimazione, ma ne definiscono altresì -in modo specifico- la forma e il quadro di riferimento concettuale”[17].

Ogni nazione ha un suo proprio diritto ecclesiastico improntato secondo particolari principi che riflettono la sua storia politica e religiosa, la sua sociologia e cultura. Pertanto la nostra trattazione dei principi non può pretendere una validità universale, diretta e univoca. Tuttavia i molti elementi culturali (anche politici e giuridici) che sono diventati comuni a molti paesi, consentono di fare riflessioni che possano avere una validità generale propria.

Invero, così come è un fatto che gli Stati hanno ciascuno una propria Costituzione e legislazione, è anche vero che, al di là delle differenze pur notevoli tra di loro, esse corrispondono non di rado agli stessi principi basilari, perlomeno laddove c’è anche una somiglianza di organizzazione politica; come dimostra anche il fatto di uno interscambio dottrinale sempre più diffuso e intenso.

Il discorso è estensibile ai principi di diritto ecclesiastico, in quanto gli Stati democratici di diritto affrontano in maniera simile le questioni attinenti la religione, e quindi si può dire che si orientano in esse secondo li stessi principi, senza intendere con questo negare le differenze.

Ancora più rilevante è che, essendo la religione materia che tocca i diritti della persona, le norme positive (costituzionali o meno) devono trovare il loro fondamento nel diritto naturale, del quale intendono in qualche modo essere l’immediata espressione. In somma, il diritto ecclesiastico, come diritto che è, ha la sua sorgente primaria nell’essere sociale dell’uomo; pertanto i suoi principi si dovranno dedurre non solo muovendo dalla legislazione positiva, ma anche dall’ordine naturale. Come dice Hervada “compito fondamentale del ecclesiaticista è scoprire le basi di Diritto naturale di quel specifico settore dell’ordinamento giuridico che costituisce l’oggetto del suo studio”[18].

Con queste premesse mi sembra adeguato proporre con carattere generale il discorso sui principi di diritto ecclesiastico fatto dal Viladrich[19]; benché sia stato elaborato nel contesto del diritto ecclesiastico spagnolo, esso ha, a mio avviso, una portata molto più larga, di teoria generale, valida anche per altri paesi.

Peraltro le riflessioni di Viladrich ebbero anche il merito di suscitare una tematica, quella appunto dei principi, fino a allora appena accennata nei manuali; difatti oggi è un capitolo obbligato nei manuali spagnoli di diritto ecclesiastico, mentre ancora in Italia il discorso dei principi rimane parziale e il più delle volte vincolato all’argomento della giurisprudenza costituzionale.

Per Viladrich il diritto ecclesiastico spagnolo è imperniato su quattro principi, quelli di libertà religiosa, di uguaglianza religiosa, di laicità e di cooperazione fra Stato e confessioni religiose[20]. Ciò non vuol dire che tale enumerazione deva considerarsi indiscussa e universale, altri autori indicano altri principi; a me pare tuttavia che, in qualche modo, i quattro principi anzidetti (oppure i loro contrari) possono essere ravvisati come ispiratori di diversi sistemi di diritto ecclesiastico.

2.Il principio di libertà religiosa

Il principio che si suol considerare primo e fondamentale è quello di libertà religiosa. Esso trova il suo fondamento e radice nel diritto di libertà religiosa[21], ma non si confonde con esso. Si tratta di un principio che definisce lo Stato come quello che, sapendosi al servizio della persona, intende il suo ruolo riguardo alla vita religiosa dei cittadini come un compito di rispetto, tutela e garanzia della libertà religiosa dei singoli e delle confessioni nonché delle manifestazioni in cui tale libertà si esprime, considerandosi di conseguenza incompetente per imporre o proibire, dirigere o impedire tali manifestazioni, personali o comunitarie.

I fondamenti

Ispirandosi alla libertà religiosa, lo Stato capisce che la religione in sé (il rapporto tra l’uomo e Dio) è un campo nel quale egli non ha il potere di interferire perché non si tratta di una materia politica. È invece chiamato a garantire nei termini più larghi possibili la libertà di religione, entro i limiti dell’ordine pubblico, i limiti cioè necessari per consentire a tutti l’esercizio dei loro diritti. Uno Stato insomma che riconosce che la libertà religiosa non esiste per il fatto che lui la conceda o consenta ma perché si tratta di una libertà inerente alla dignità della persona[22].

Tantomeno potrebbero essere poste a fondamento di questo principio ragioni meramente ideologiche, come l’agnosticismo, l’indifferentismo o il sincretismo di Stato: soltanto il riconoscimento della libertà della persona e della sua priorità rispetto allo Stato, può dare giusto fondamento al principio di libertà religiosa. Infatti, questo non si fonda nel fatto che lo Stato considera equivalenti tutte le dottrine religiose, oppure che non esiste una sola verità religiosa o che comunque essa non è conoscibile: non si tratta di che la libertà religiosa trova spazio nelle premesse ideologiche di uno Stato, ma nel rispetto della dignità umana.

Ma che lo Stato si riconosca incompetente a intervenire nelle scelte religiose dei cittadini, non significa che debba negare, ignorare o minimizzare la portata sociale della dimensione religiosa dell’uomo, e quindi la relazione di questa con il bene comune[23]. I poteri pubblici debbono essere interessati a favorire che ogni uomo possa liberamente e responsabilmente cercare la verità, formare la propria coscienza e orientare la propria vita secondo essa, senza dover subire coazione in questo ambito, il più intimo e delicato della vita personale.

Specificità del fenomeno e del conseguente diritto

Lo Stato che intende affrontare la questione religiosa in termini di libertà, riconosce che essa determina un diritto proprio e specifico, distinto di altri diritti che riguardano altre libertà (come la libertà di pensiero e di coscienza), con esigenze altresì proprie e particolari, ad es. quelle legate alla celebrazione dei riti e ai ministri del culto, alla osservanza di precetti religiosi o alla predicazione e l’insegnamento della religione. E in modo particolare alle manifestazioni collettive e istituzionali della religione e cioè le confessioni religiose.

Infatti, la libertà religiosa richiama uno spazio di libertà specifico, che riguarda il rapporto di ciascuno con la divinità e con la trascendenza.

Diverso è l’oggetto della libertà di pensiero che fa riferimento al rapporto dell’uomo con la verità naturale: la scienza, l’arte e la cultura, la filosofia, la politica, ecc.

La libertà di pensiero determina anche una incompetenza dello Stato su tali materie e ha proprie esigenze, che si concretizzano nella libertà di espressione, di cattedra, di stampa, di insegnamento…

Parimenti la libertà di coscienza è riferita al rapporto dell’uomo con il bene e il male etico, cioè al giudizio morale sulla condotta propria e altrui; richiede quindi uno spazio di autonomia rispetto allo Stato e agli altri gruppi sociali; affinché il cittadino nella ricerca del bene non sia obbligato a condotte contrarie alla propria coscienza, né impedito di agire secondo essa.

Certamente queste tre libertà: di pensiero, di coscienza e di religione, pur essendo distinte, sono in stretto rapporto tra loro. Da un lato per il soggetto che è sempre la persona nella sua dignità di essere razionale e libero, e anche per l’oggetto, poiché la religione comporta anche una certa e fondante visione del mondo (filosofia) e parimenti i principi della morale; magari non completamente sviluppati o chiusi.

Un’ultima considerazione è necessario fare riguardo questi tre spazi di autonomia personale nei confronti dello Stato e della società. E cioè che il fatto che questi debbano rispettare la libertà di convinzione e di credo, e non imporre una determinata visione su queste materie, non significa cadere nel mito dello Stato neutro o meramente formale, carente di valori. Ciò non esiste in teoria e nemmeno in pratica. Ogni società e ogni Stato o sistema giuridico sono basati su una visione dell’uomo (antropologia), del bene (del giusto e dell’ingiusto) e della trascendenza (la religione fonda le culture). Significa però che lo Stato non deve comportarsi come agente, leader o protagonista di queste realtà, ma come ricettore delle istanze sociali e delle dottrine diffuse nella società (per ragioni storiche, sociologiche, ecc.). A lui non devono interessare direttamente la filosofia, l’etica o la religione in quanto tali, ma soltanto le loro manifestazioni rilevanti per il bene comune, per la convivenza ordinata. D’altro canto quali che siano le basi di principio su cui poggia un ordinamento giuridico, al cittadino non viene chiesto di accettare ideologicamente tali basi ma di rispettarne le conseguenze giuridiche di esse, di obbedire le leggi che ne risultano. Lo Stato non ha come missione inculcare tutte le virtù, semmai quelle necessarie alla convivenza, benché debba favorirne la pratica. Inoltre i cittadini in una democrazia hanno la libertà per prefiggersi di cambiare l’ordinamento giuridico e le sue basi usando i legittimi mezzi del confronto politico.

3.L’uguaglianza religiosa

Il principio di uguaglianza religiosa esige, in primo luogo, che lo Stato non faccia discriminazione delle persone o dei gruppi in base alle loro scelte di tipo religioso; e ciò in due sensi: riguardo alla libertà religiosa, che non può essere riconosciuta agli uni e negata (o limitata) agli altri a seconda della religione che seguono; e riguardo ai altri diritti (sociali, politici, lavorativi, ecc.) il cui riconoscimento ed esercizio non può dipendere dalle scelte religiose dei soggetti. Lo Stato deve considerare a tutti secondo la loro uguale condizione di persona e di cittadino e non secondo la loro condizione di fedele o membro di questa o quella confessione.

Per comprendere bene l’uguaglianza bisogna tener conto della sua funzione e finalità. Essa non è fine a sé stessa né un diritto assoluto, ma piuttosto un valore o diritto “che non ha una propria autonomia, in quanto si pone sempre in rapporto a altri diritti di cui determina la portata”; l’uguaglianza si predica sempre in relazione ad un diritto  o situazione giuridica concreta[24].

L’uguaglianza giuridica non si deve confondere con l’egualitarismo, ossia il trattamento uniforme e piatto che, tralasciando le differenze cerca soltanto di parificare i soggetti per la via di imporre minimi comuni, eliminando la varietà e coartando la libertà sotto pretesto di parità.

Per evitare l’egualitarismo è necessario collocare l’uguaglianza nel suo giusto contesto che è quello del diritto e non quello dei fatti. Quello che l’uguaglianza religiosa esige è che venga a tutti riconosciuta la libertà religiosa con la stessa ampiezza, senza restrizioni o privilegi: parità nella libertà. L’uguaglianza nel godimento dei diritti garantisce la varietà permettendo a ciascuno (individuo o confessione) di manifestare, organizzarsi e agire secondo le proprie convinzioni; non dover comperare la propria libertà al prezzo di omologarsi ad un modello preconcetto, uniforme e definito a priori dalla legge civile[25].

L’uguaglianza non è quindi una utopica ed inesistente parità di fatto ma di diritto, uguaglianza di possibilità ma che tiene conto delle differenze reali, giustificate e ragionevoli (legate ad es. alla storia o alla tradizione culturale della nazione; al radicamento effettivo). A ragione è stato spesso detto che giustizia non è dare a tutti lo stesso ma dare a ciascuno il suo, il che esige trattare ugualmente le situazioni uguali e diversamente le situazioni diverse[26].

Certamente l’uguaglianza agisce pure come giusto limite della libertà, laddove riconoscere le caratteristiche e le esigenze particolari degli uni significhi una minaccia od un limite arbitrario alla libertà altrui, cioè una discriminazione La giustizia esige che in pratica si facciano compatibili i diritti di tutti, il che richiede porre certi limiti ai diritti, anche qui di tutti. Ma oltre a questo non si deve limitare la libertà sotto pretesto di uguaglianza.

Riassumendo i rapporti che corrono tra libertà religiosa e uguaglianza, si potrebbe dire che mentre si deve riconoscere a tutti la massima libertà possibile, perché la libertà è un valore in sé, si deve invece imporre la minima uguaglianza necessaria al fine, appunto, di garantire a tutti il godimento della loro libertà.

4.Il principio di laicità

Questo principio viene oggi inteso come quello che definisce la posizione dello Stato di fronte al fattore religioso secondo un atteggiamento di neutralità o di non confessionalità, cioè -come dice Viladrich[27]- di non concorrenza con le scelte religiose dei cittadini, attraverso una presa di posizione ufficiale in materia religiosa. Talvolta questo principio viene formulato come separazione fra Stato e confessioni. Fra laicità, neutralità e separazione c’è una sostanziale affinità anche se ciascuno di questi concetti mette l’accento su manifestazioni differenti.

Che non ci sia una religione ufficiale significa soprattutto due cose: che lo Stato no si pone al servizio di una confessione religiosa, assumendone la dottrina e le finalità; e che lo Stato non pretenderà di servirsi di nessuna religione quale strumento della sua politica. Egli quindi non potrebbe adottare nei rapporti con la religione né un atteggiamento cesaropapista o giurisdizionalista e nemmeno sottoporsi ad una teocrazia o ierocrazia. Deve prendere la religione come fatto sociale rilevante per il bene comune.

Soprattutto in passato, la laicità o neutralità dello Stato ebbe connotati di laicismo, atteggiamento indifferente talvolta ostile verso la religione o, più esattamente, verso la presenza e l’agire sociale delle confessioni, arrivando a proporre come surrogati i propri miti e divinità (la Ragione, lo stesso Stato, il Partito unico oppure l’ideologia dominante). Negli Stati democratici di oggi questo atteggiamento negativo è stato per lo più superato da una idea di laicità intesa piuttosto come distinzione e indipendenza reciproca tra ordine politico e ordine religioso, tra gli enti, le leggi e le autorità rispettivi. La laicità ha dunque lo scopo anch’essa di fare possibile la libertà religiosa di tutti: se lo Stato adottasse una sua religione facilmente finirebbe per discriminare o limitare la libertà di coloro che non appartengono ad essa (ad es. negando loro l’accesso a certe cariche).

In fondo all’idea di laicità statale c’è il fatto che lo Stato, che oggi si configura come struttura impersonale, non è soggetto della religione né pertanto della libertà religiosa.

Tuttavia il fatto che come abbiamo visto, le leggi non debbano assumere direttamente criteri di ordine religioso e che i pubblici poteri non agiscano quali agenti di una certa confessione, non deve alimentare il mito illuminista della neutralità culturale, che non esiste. Nella base di qualsiasi ordinamento giuridico c’è sempre un concetto di uomo e di società, di bene, di male e di giustizia più o meno immediatamente collegati ad una religione: la vita non è neutra.

Ma, ispirandosi alla laicità, lo Stato deve recepire e dare attuazione a questi valori sociali deducibili da una certa religione, secondo criteri secolari e non fideisti, cioè nella misura in cui tali valori, per ragioni storiche, culturali o sociologiche sono vivi e operativi nella vita sociale della nazione e quindi possono essere considerati integranti del bene comune, importanti per la società stessa; ma non pronunciandosi sulla intrinseca verità o sull’origine trascendente di tali valori[28].

5.Il principio di cooperazione

Abbiamo visto che la laicità non significa che lo Stato possa ignorare l’importanza personale e sociale della dimensione religiosa dell’uomo, al contrario ne deve tener conto come fattore che incide fortemente nella vita della comunità politica in modi svariati: determinando mentalità e comportamenti, sensibilità e atteggiamenti personali e sociali.

D’altro canto lo Stato, pur considerando importanti per il bene comune le esigenze religiose del popolo, non può pretendere di gestire o soddisfare direttamente tale interesse[29], questo ruolo spetta (perlomeno in molti casi) alle confessioni e gruppi religiosi attraverso il culto, la predicazione o l’assistenza religiosa.

Da qui il principio di cooperazione tra Stato e confessioni, che si fonda non sulla confusione di interessi e posizioni, ma sulla comune vocazione di servizio alla persona che ciascuno di essi ha nel proprio ordine, e anche nel positivo apprezzamento da parte statale della religione come fattore di rilievo per la vita dei cittadini e del ruolo insostituibile delle organizzazioni confessionali, anche quando, per ragioni loro proprie, promuovono iniziative di ordine assistenziale, culturale o umanitario, per le quali spesso lo stesso Stato è inadatto. Insomma la collaborazione sorge dal riconoscere il valore della religione per il bene comune e del contributo che ad esso possono dare le organizzazioni religiose.

La cooperazione richiede in primo luogo che lo Stato riconosca le confessioni secondo la loro propria natura di soggetti collettivi della religione e quindi della libertà religiosa, consentendo loro di avere uno statuto giuridico civile rispettoso della loro autonomia e organizzazione e attività. In secondo luogo, lo Stato può avviare con le confessioni rapporti per aiutarle nell’adempimento dei loro fini, riconoscendo il loro contributo al benessere della comunità.

Tale cooperazione segue diverse formule, quella più tipica sono gli accordi bilaterali fra Stato e confessioni[30], tra i quali spiccano i concordati con la Chiesa cattolica che hanno la natura e le caratteristiche degli accordi internazionali. Questi accordi, a parte la loro diversa natura giuridica, hanno tutti lo scopo primario di definire lo statuto giuridico di ciascuna confessione nell’ordinamento statale, in modo che tale statuto, nel rispetto della libertà religiosa, sia rispondente alla natura e i bisogni specifici della confessione interessata.

6.Ordine e rapporti tra i principi del diritto ecclesiastico

[Questo argomento va studiato nel mio articolo citato a nota 31 btcaai; in spagnolo: btcaif]

Da quanto abbiamo detto sin qui si deduce che i principi che ispirano un dato sistema di diritto ecclesiastico sono in rapporto tra loro e giocano ciascuno secondo la loro importanza e funzionalità. A mio parere quello di libertà religiosa, per il fatto di essere fondato su un particolare diritto della persona, si deve considerare come il primo e fondamentale tra i principi che definiscono la posizione di uno Stato democratico nei confronti della religione[31]. Gli altri in realtà sono funzionali al effettivo rispetto e promozione della libertà religiosa di tutti nei termini più ampi possibili.

Per tanto ci deve essere uno equilibrio tra i vari principi dimodoché tutti contribuiscano a caratterizzare il sistema di diritto ecclesiastico di un paese. Abbiamo visto che la libertà degli uni non si può allargare fino a ledere quella degli altri, e a ciò serve l’uguaglianza. Questa a sua volta non deve dare passo ad un ugualitarismo che limiti la libertà in nome di una non necessaria uniformità. La laicità (aconfessionalità o neutralità statale) ha lo scopo di assicurare che i poteri pubblici rispetteranno con imparzialità le svariate scelte religiose dei cittadini, senza interferire o appropriarsi di nessuna di esse, e quindi tutelare senza pregiudizi la libertà religiosa di tutti[32]. La cooperazione intende facilitare l’esercizio della libertà religiosa (specie quella collettiva) in modo concreto e adeguato alle esigenze di ciascuna confessione, entro però dei limiti della laicità e dell’uguaglianza.



[1] Cf. J. Hervada, Nota introductoria: la noción de derecho eclesiástico, in AA.VV. «Tratado de Derecho eclesiástico», Pamplona 1994, p. 30.

[2] Tra questi P.A. d’Avack, che lo definisce prima come “il sistema delle norme giuridiche speciali poste dallo Stato italiano” sulla materia, o in modo più completo “il diritto speciale italiano attinente la disciplina della materia ecclesiastica” (Trattato di Diritto ecclesiastico italiano (parte generale), 2ª ed, Giuffrè, Milano 1978, p. 11).

[3] “Su objeto propio es la posición del ciudadano y de las comunidades en el Estado y ante él, en función del fenómeno religioso” (Ibid. p. 29).

[4] Così J.M. González del Valle secondo cui l’oggetto sarebbe “la actituda del poder político respecto a las organizaciones religiosas y a las manifestaciones individuales de religiosidad” (Derecho eclesiástico español, 4ª ed. 1997, p. 66).

[5] Il concetto del diritto ecclesiastico, Padova 1946; Id., Il Diritto ecclesiastico nella esperienza giuridica, Milano 1976.Vid. P. Lombardía‑J. Fornés, La expresión derecho eclesiástico: AA.VV., «Derecho Eclesiástico del Estado español», 4ª ed., Eunsa, Pamplona 1996, p. 24‑29; D. García‑Hervás, El derecho eclesiástico: AA.VV «Manual de Derecho Eclesiástico del Estado», Colex, Madrid 1997.

[6] Seguo a González del Valle, Derecho eclesiástico español, cit., p. 72-78. Ritengo però che si possa fare scienza sulla base dello speciale trattamento che domanda una data materia; tutti gli Stati hanno un diritto ecclesiastico ma soltanto in alcuno esso rappresenta una specialità.

[7] Basti ricordare qui l’art. 18 della DUDU.

[8] Cf. J. Hervada, Bases críticas para la construcción de la ciencia del Derecho Eclesiástico, in «ADEE», III (1987), p. 32.

[9] Justice Sutherland in United States v. Macintosh, 283 U.S. 605 (1931) pp. 633-634.

[10] “Under the 1940 Act, it was necessary only to have a conviction based upon religious training and belief; we believe that is all that is required here. Within that phrase would come all sincere religious beliefs which are based upon a power or being, or upon a faith, to which all else is subordinate or upon which all else is ultimately dependent. The test might be stated in these words: a sincere and meaningful belief which occupies in the life of its possessor a place parallel to that filled by the God of those admittedly qualifying for the exemption comes within the statutory definition. This construction avoids imputing to Congress an intent to classify different religious beliefs, exempting some and excluding others, and is in accord with the well established congressional policy of equal treatment for those whose opposition to service is grounded in their religious tenets”; Justice Clark in United States v. Seeger, 380 U.S. 163 (1965) p. 176.

[11] Versione italiana de José T. Martín de Agar, Los principios del derecho eclesiástico del Estado, in «Revista de Derecho de la Pontificia Universidad Católica de Valparaíso» (Valparaíso, Chile, 2003) 333-344, anche in btcaav.

[12] Vid. P.A. d’Avack, Trattato di diritto ecclesiastico italiano, Parte generale, 2ª ed. Milano 1978, p. 11-20.

[13] J. Hervada, Bases críticas para la construcción de la ciencia del Derecho Eclesiástico, in “Anuario de Derecho Eclesiástico del Estado”, III (1987), p. 32. Cf. J.M. Vázquez García-Peñuela, El objeto del derecho eclesiástico y las confesiones religiosas, in “Ius Canonicum” (1994) p. 279-290.

[14] Ibid. Regolatore di questa proiezione civile del fatto religioso è oggi principalmente lo Stato, ma abbiamo visto in quale misura si può anche parlare di un diritto ecclesiastico internazionale.

[15] Cf. Z. Combalía, Principios informadores del Derecho eclesiástico español, in AA.VV. “Manual de Derecho Eclesiástico del Estado” (coord. D. García Hervás), Madrid 1997, p. 129.

[16] Un esempio si trova nelle costituzioni delle repubbliche socialiste (molte di esse ormai tramontate), nelle quali ai proclami costituzionali di libertà religiosa e di coscienza seguivano una normativa e una prassi di repressione della religione e di propaganda ateistica. Anche la costituzione messicana del 1917 proclama la libertà religiosa (art. 24), ma soltanto dopo la riforma del 1992 questo diritto è stato veramente riconosciuto; cf. J.L. Soberanes, Surgimiento del Derecho eclesiástico mexicano, in ADEE (1992) p. 313-325.

[17] L. Guerzoni, Considerazioni critiche sul “principio supremo” di laicità dello Stato alla luce dell’esperienza giuridica contemporanea, in IDE (1992) p. 88.

[18] Bases críticas..., cit., p. 30.

[19] P.J. Viladrich, Los principios informadores del Derecho eclesiástico español, in AA.VV., “Derecho Eclesiástico del Estado Español”, 1ª ed., Pamplona 1980, p. 211-317. Nella quarta edizione il tema è sviluppato da: P.J. Viladrich – J. Ferrer Ortiz, Los principios informadores..., en AA.VV., “Derecho Eclesiástico del...”, cit., 4ª ed. Pamplona 1996, p. 115-152.

[20] Ibid. Seguono Viladrich, J. Ferrer, Los principios informadores del Derecho eclesiástico del Estado, relazione nel VIII Congreso Internacional de Derecho Eclesiástico del Estado, Granada 13-16 de mayo de 1997; Z. Combalía, Principios informadores..., cit., p. 130-131.

[21] Come dice Viladrich, mentre il diritto di libertà religiosa contiene una idea di persona e della sua dignità di tale, il relativo principio contiene una idea di Stato. Sulla libertà religiosa come diritto, vid. J. Mantecón, El derecho fundamental de libertad religiosa, Pamplona 1996.

[22] Cf. Concilio Vaticano II, Decl. Dignitatis humanae, n. 2.

[23] Che l’incompetenza non debba confondersi con l’irrilevanza è stato osservato da M. Ventura, Diritto e religione in Europa: il laboratorio comunitario, in «Politica del Diritto» (4/1999) p. 557.

[24] Tribunal Constitucional Español, Auto 862/1986, 29.X.1986, fundamento jurídico 3. Questa decisione qualifica l’uguaglianza come “derecho fundamental per relationem”. Cf. A.C. Álvarez Cortina, El derecho eclesiástico en la jurisprudencia constitucional (1978-1990), Madrid 1991, p. 966; Z. Combalía, Principios informadores..., cit., p. 133.

[25] Si deve tuttavia osservare come il riconoscimento legale delle confessioni pone problemi particolari in tema di uguaglianza. Certamente le esigenze dell’uguaglianza, a livello di principio, sono le stesse nei confronti degli individui che dei gruppi, ma il rispetto dell’uguaglianza a livello collettivo richiede soluzioni tecniche più articolate.

L’individuo si presenta prima facie all’ordinamento civile come persona e come tale deve essere trattato nei diritti e doveri che tale condizione implica, fatta astrazione del suo credo o appartenenza confessionale.

Una simile astrazione non è possibile nel caso dei gruppi religiosi. Le confessioni si presentano davanti al diritto civile appunto come entità religiose: ragruppamenti più o meno organizzati dei cittadini che condividono la stessa religione, la cui dimensione istituzionale manifestano e rappresentano (tramite il culto, l’osservanza dei precetti, la propaganda, l’assistenza religiosa, ecc.). Quindi il riconoscimento e lo statuto civile delle confessioni deve muovere appunto dalla considerazione della loro specifica natura di entità religiose. Non si può ignorare questo loro specifico carattere.

[26] F. Ruffini, Corso di Diritto..., cit., p. 424. E’ ben noto il passaggio del maestro italiano dove osserva con realismo che il vero principio di parità e giustizia non consiste nel dare a tutti lo stesso, bensì a ciascuno il suo, perché “trattare, come già diceva il vecchio Ahrens, in modo uguale rapporti giuridici disuguali è altrettanto ingiusto quanto il trattare in modo disuguale rapporti giuridici uguali” (Libertà religiosa e separazione fra Stato e Chiesa, in Scritti giuridici dedicati a G. Chiorini, Torino 1915, p. 272) Cf. F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna 1992, p. 502; J. Escrivá de Balaguer, Amigos de Dios, Madrid 1977 - Medellín 1978, n. 173 § 2.

[27] P.J. Viladrich – J. Ferrer Ortiz, Los principios informadores..., en AA.VV., “Derecho Eclesiástico del...”, cit., 4ª ed. Pamplona 1996, p. 133.

[28] Nella definizione della laicità come principio del diritto ecclesiastico italiano è significativa la Sent. della Corte Costituzionale del 12 aprile 1989, n. 203, nella quale essa viene considerata come una dei principi supremi dell’ordinamento, “principio che implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. Una analisi del concetto di laicità da essa emeregente in L. Guerzoni, Considerazioni critiche…, in IDE (1992) p. 86-112; vid anche la Sent. Corte Cost. n. 195 del 27 aprile 1993.

[29] Sono svariati gli ambiti vitali della persona che danno origine a valori ed interessi degni di essere promossi, in modo particolare quelli in rapporto con la dimensione spirituale: la religione, l’arte e la cultura, gli affetti e l’amicizia, lo svago, ecc.; e che tuttavia lo Stato non è in grado di soddisfare o gestire direttamente senza ledere la libertà.

[30] Questa prassi è seguita in paesi come la Germania, Italia, Austria, Spagna, Polonia.

[31] La considerazione del diritto ecclesiastico como legislatio libertatis sembra confermare questa impostazione. Mi sono occupato in José T. Martín de Agar, Libertà religiosa, uguaglianza e laicità, en “Ius Ecclesiae” VII (1995) p. 199-215, btcaai. Cf. J. Ferrer ortiz, Los principios constitucionales de Derecho eclesiástico como sistema, in AA.VV. “Las relaciones entre la Iglesia y el Estado. Estudios en memoria del Profesor Pedro Lombardía”, Madrid 1989, p. 309-322.

[32] “El principio de laicidad deriva su sentido final del de libertad religiosa” (P.J. Viladrich – J. Ferrer Ortiz, Los principios informadores..., cit., p. 132).