Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo
Karlsson c. Svezia (8 settembre 1988)
Esclusione della qualificazione per un posto dl vicario - Violazione della libertà di pensiero, coscienza e religione e della libertà di espressione (artt. 9 e 10 Cedu) - Insussistenza.
La Convenzione europea dei diritti delll’uomo non obbliga, in forza degli articoli 9 e 10, le Parti contraenti ad assicurare che le Chiese, dentro la loro giurisdizione, garantiscano libertà religiosa ai loro membri e seguaci. La libertà di religione quindi non include il diritto di un ecclesiastico all’interno della struttura di una Chiesa, in cui egli opera o a cui si rivolge per un posto, di praticare una personale ed insindacabile convinzione o fede religiosa.
1. Il ricorrente sostiene che il rifiuto di accettarlo come candidato per un posto di vicario costituisce violazione del suo diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione come garantiti dall'att. 9 della Convenzione.
La Commissione nota che questa affermazione riguarda la decisione di una Chiesa di Stato, confermata, su appello del ricorrente, dal Governo svedese.
Dal momento che la doglianza del ricorrente si riferisce al fatto di non essere stato accettato come qualificato per il posto di vicario, la Commissione richiama i casi Glasenapp e Kosierk (Corte europea dititti dell’uomo, sentenze Glasenapp e Kosierk del 28 agosto 1986, serie A n. 104 e 105) dove la Corte ha espresso in termini precisi che l'accesso al servizio civile non è diritto garantito dalla Convenzione. La Corte inoltre dichiarò che non vi era alcuna interferenza con un diritto della Convenzione quando il nucleo del ricorso agli organi della Convenzione riguardava misure prese dall'autorità per assicurarsi che una persona aspirante ad un posto possedesse la qualificazione personale necessaria per il posto in questione.
Tuttavia la Commissione ha considerato la doglianza del ricorrente sotto il profilo dell'att. 9 della Convenzione come da lui presentata [...].
La Commissione richiama sotto questo aspetto la sua costante giurisprudenza per la quale l'art. 9 non obbliga le Parti contraenti ad assicurare che le Chiese dentro la loro giurisdizione garantiscano libertà religiosa ai loro membri e seguaci (cfr. n. 7374/76, decisione 8 marzo 1976, D.R. 5, p. 157). La libertà di religione quindi non include il diritto di un ecclesiastico all'interno della struttura di una Chiesa, in cui egli opera o a cui si rivolge per un posto, di praticare una particolare fede religiosa. Se le opinioni del ricorrente circa le donne sacerdote e quindi le sue intenzioni sulla cooperazione con colleghi donne sono ritenute incompatibili con le opinioni generalmente accettate dalla Chiesa in questione, questa non è tenuta ad accettare il ricorrente come suo membro.
D'altra parte se i requisiti richiesti ad una persona dalla Chiesa fossero in conflitto con le sue convinzioni, dovrebbe essere libero di lasciare il suo ufficio, e la Commissione considera questo come un'ultima garanzia del suo diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione.
Nel presente caso la Commissione ricorda che il ricorrente ricopre un posto nella Chiesa di Stato svedese e che non vi è nulla che mostri che il ricorrente debba temere un allontanamento dal suo posto attuale. Inoltre, il ricorrente non ha dimostrato di essere stato sottoposto ad alcuna pressione per cambiare le sue opinioni o che gli sia stato impedito di manifestare la sua religione o opinione. Al contrario sembra chiaramente, dalla decisione del Governo, che le opinioni del ricorrente sulle donne sacerdote non erano considerate tali da renderlo inidoneo, ma che egli non possedeva le qualificazioni necessarie per il posto, ciò che tuttavia, come dichiarato sopra, è una questione che cade fuori dello scopo dell'art. 9.
Di conseguenza la Commissione dichiara che la decisione lamentata non viola in alcun modo l'esercizio dei diritti del ricorrente fondati sull'art. 9 della Convenzione e questa parte del ricorso quindi manifestamente infondata in applicazione dell'art. 27 della Convenzione.
Per quanto riguardo l'affermazione del ricorrente che vi è stata una violazione del suo diritto alla libertà di espressione come garantito dall'art. 10 della Convenzione, la Commissione considera che un uguale ragionamento si applichi mutatis mutandis alla doglianza del ricorrente fondata su questo articolo come per quella relativa all'art. 9. Segue che non vi è stata violazione del diritto clel ricorrente come garantito dall'art. 10 e questo aspetto del ricorso è quindi del pari manifestamente infondato in applicazione dell'art. 27.2 della Convenzione (Omissis) [Tratto da «Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica» (1989/1) p. 297-299].