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Atti del Convegno 2005

Acta Fhilosophica Atti del Convegno 2005 Atti del Convegno 2003
 

Presentazione
"Atti del Convegno 2003.
Poetica & Cristianesimo"

«Poetica e Cristianesimo» è un forum di studio della confluenza fra cultura artistica ed espressioni della fede. Si configura in due tipi di attività, entrambe internazionali ed interdisciplinari: un Seminario Permanente ed un Simposio biennale. Queste attività sono un'occasione di incontro tra accademici ed artisti di diversi campi ed orizzonti di lavoro, che orbitano attorno alla Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce, a Roma.

Questo volume raccoglie gli Interventi e le Comunicazioni di coloro che hanno partecipato al primo simposio «Poetica e Cristianesimo», che ha avuto luogo a Roma, il 28 e 29 aprile 2003. Già l'indice parla da solo del carattere internazionale ed interdisciplinare di quanto è stato trattato durante queste giornate, oltre che del concreto interesse che ciascun testo offre agli esperti di ogni specifico ambito lavorativo dal quale provengono.

Risulta evidente, dopo la lettura del volume, che ci troviamo davanti al promettente inizio di un lungo cammino, più che ad un punto di arrivo. È chiaro che le specifiche qualità di ogni autore e di ogni lavoro – sia quelli di origine artistica e culturale, che quelli correlati a premesse accademiche dell'ambito della comunicazione, della filosofia o della teologia – si sono aperte ad una dimensione interdisciplinare che trascende i criteri ed i limiti consueti di ognuno di questi singoli campi. Ed è anche chiaro che autori ed opere si muovono in tradizioni di pensiero che non necessariamente coincidono tra loro, ma che certamente non risultano incompatibili di fronte alla sfida dell'approssimazione tra la creatività e critica poetica e la dottrina e i modi di vivere il cristianesimo.

Non si tratta di presentare in queste parole preliminari una sintesi di ciascuno dei testi che il lettore incontrerà in questo volume. È evidente, ad esempio, che le opere studiate, dall'epica omerica a Blade Runner , dalla Bibbia alla poesia di Neruda, sono state considerate alla luce della Filosofia, della Teologia, della Storia, dell'Antropologia o della Comunicazione, aprendo nuovi e ampi orizzonti per ulteriori lavori.

Il lettore troverà in questi testi un'occasione per osservare un denominatore comune latente, alla ricerca di una maggior comprensione della natura dell'arte, della natura del cristianesimo e delle loro reciproche connessioni: la relazione tra le razionalità poetiche e la fede, non soltanto come credo, ma come atto del credere.

In questo senso bisogna dire con George Steiner (1) che, insieme a una certa stanchezza che quest'autore segnalava come clima spirituale di fine secolo XX, si percepisce anche che è viva una forte speranza nell'esperienza culturale e nella riflessione accademica relative alle arti ed alle lettere nel contesto della fede cristiana. Proprio perché l'ordine delle realtà che si apprezza in una prospettiva cristiana – lontani da un volontarismo volgare – non è né completamente irrazionale né solleva un'etica arbitraria o assurda.

Parafrasando Steiner (2) , bisogna anche osservare – leggendo il presente volume che il lettore tiene tra le mani – che tanto l'esultanza umana quanto il dispiacere, l'angoscia e il giubilo, l'amore e l'odio, continuano ad esigere un'espressione definita al linguaggio delle arti e delle lettere ed al linguaggio della ragione raziocinante. E a questa sfida rispondono arti e lettere di tutti i tempi ed orizzonti, senza prescindere da un riferimento soprannaturale, trascendente, perché la poiesis genuina ha fornito nel corso della storia un'armatura – in senso ampio – teologica. Sia attraverso la strada esplicita dell'impegno metafisico e teologico – come occorre in Eschilo, Dante, Bach o Dostoevskij –, sia tramite l'abisso della sua negazione esplicita – come avviene con il clown di Dio in Samuel Beckett.

Se osserviamo la storia con un minimo di attenzione notiamo che – almeno fino a questo momento, come dice Steiner – non è facile apprezzare un'arte e una cultura pienamente atei, cosa che – nell'ipotesi in cui potesse presentarsi – sarebbe qualcosa di più genuino e impegnato del debole «agnosticismo da aspirina», del né caldo né freddo che oggi inonda la nostra postmodernità. Steiner non ha risposta per questa domanda: «quale sarebbe la contropartita atea ad un affresco di Michelangelo o al Re Lear ?». Perciò conclude affermando: «siamo stati per lungo tempo, e credo che ancora lo siamo, gli ospiti della creazione. Dobbiamo al nostro anfitrione la cortesia della domanda» (3).

Essere ospiti dei mondi possibili nati dalla creazione artistica e letteraria, naturalmente, impone di estrapolare il riferimento – apparentemente proporzionale – all'anfitrione che vi ci colloca e che ci chiama ad imitarlo liberamente come Creatore nel mondo reale. Benché oggigiorno, senza dubbio, questa determinazione non sia un compito né comodo né certamente semplice. E non soltanto perché la ragione (logica, scientifica, politica, etica, poetica) e la fede tendano a circolare in ambiti diversi nelle vite di molte persone, che o sono prive di fede o, avendola, ignorano la loro leggera ma mortale schizofrenia personale.

Charles Taylor (4) ci ricorda che non viviamo più in tempi in cui la relazione trascendente con Dio è tanto naturale quanto lo fu – per fare un riferimento storico – prima dell'illuminismo razionalista, quando la religione era inserita nel nucleo centrale della vita pubblica delle società. Viviamo in tempi in cui le società e le culture vengono definite democratiche, e – usando un sillogismo che sfida qualsiasi razionalità – risultano essere società essenzialmente secolari , nelle quali non esiste alcuna difficoltà a dichiararsi persona non credente . La fede pretende di essere relegata al recinto del mondo individuale privato della coscienza, senza manifestazione sociale.

L'umanesimo, dice Taylor, è ancora vigente, ma la ricerca del bene diventa un compito immanente ed esclude la dimensione trascendentale quando si tratta di stabilire la moralità della vita sociale. Essere strettamente razionali nella considerazione del bene universale presuppone che dobbiamo essere «spettatori imparziali» ( Hutcheson, Smith, gli utilitaristi). Il mondo in cui viviamo non fa più parte del cosmo: non è più un regalo per la vita in comune che dobbiamo tutelare ed amministrare. Ora il cosmo è solo l' universo : un vasto insieme di cose nel quale non si coglie un senso, una struttura carente di rilevanza morale. E la solidarietà o senso d'appartenenza nella vita spirituale, sempre necessaria per la configurazione sociale, ha più a che vedere con il «mutuo riconoscimento di gruppi di diverse denominazioni», alla maniera protestante statunitense, o con i vaghi sentimenti tipo «new age» nei quali ciò che è rilevante si riduce a mera «autenticità». Viviamo una «spiritualità fratturata», nella quale conta soprattutto la supremazia della «ispirazione personale». E non la risposta ad un'iniziativa divina.

Questa «eclisse di Dio nella nostra civiltà» della quale parla Taylor (5) ammette, tuttavia, aperture alla trascendenza. Probabilmente non già intraprendendo la ricostruzione di una «Cristianità» concepita secondo le logiche sociali premoderne, ma piuttosto di un «Cristianesimo» che sviluppa negli impegni della vita ordinaria alcuni dei nuovi ideali vigenti o luoghi comuni contemporanei. Anzitutto, è un'ideale vigente la «moralità della compassione», del agape , visto come l'amore con il quale siamo amati da Dio nella bassezza delle nostre debolezze ed imbecillità. In secondo luogo, possiamo anche considerare che abbiamo un nuovo ideale, centrato attorno alla ricerca del «senso perduto della vita», perdita che in precedenza si riteneva del tutto impensabile. Infine, è un luogo comune contemporaneo anche la considerazione di un nuovo senso «profetico» capace di essere genuinamente accettato dalla razionalità specifica del soggetto moderno (6) .

Si tratta di ideali vigenti che presuppongono anzitutto un'apertura alla trascendenza, ed un ritorno alla presenza di Dio nella nostra civiltà, dopo l'eclisse indicata da Taylor, perché si tratta di ideali che coincidono o per lo meno non contraddicono i tratti caratteristici dell'ambito esplorato dall'attività poetica di ogni tempo, da Aristotele a Flannery O'Connor. E sono senz'altro punti di iniezione per la trascendenza, nei quali risulta naturale lavorare «cristianamente» per adattare la vita moderna alla dottrina di Cristo e al suo regnare le anime. E non al contrario, come a volte è stato inteso – cercando una sorta di impossibile nuova «cristianità» – pretendendo di negoziare politicamente ed adattare questa dottrina di Cristo ai tempi moderni a seconda dei diversi criteri e consensi ideologici umani, immanenti, più o meno attuali.

Un'apertura alla trascendenza di tale indole può essere apprezzata in parecchie delle pagine che il lettore ha tra le mani, perché in molte di esse ferve lo spirito vissuto e proclamato da San Josemaría Escrivá. Forse è il momento di citare alcune sue parole, con le quali si dirige a varie migliaia di persone nell'omelia di una messa celebrata all'aperto, in un campus universitario. Anche se non parla esplicitamente a poeti o ad accademici – che tuttavia erano presenti tra coloro che ascoltavano –, si dirige a persone che lottano per vivere la loro fede cristiana in tutti i crocicchi della vita. La citazione è lunga, ma vale la pena di leggerla per meglio comprendere quale ideale di lavoro si annidi dietro il nome di «Poetica e Cristianesimo»:

«Un uomo consapevole che il mondo – e non solo il tempio – è il luogo del suo incontro con Cristo, ama questo mondo, si sforza di raggiungere una buona preparazione intellettuale e professionale, e va formando – in piena libertà – il proprio criterio sui problemi dell'ambiente in cui opera; e di conseguenza prende le sue decisioni che, essendo decisioni di un cristiano, sono anche frutto di una riflessione personale, umilmente intesa a cogliere la Volontà di Dio in questi particolari piccoli e grandi della vita.

«Ma a questo cristiano non viene mai in mente di credere o di dire che lui scende dal tempio al mondo per rappresentare la Chiesa, e che le sue scelte sono le soluzioni cattoliche di quei problemi. Questo non va, figli miei! Un atteggiamento del genere sarebbe clericalismo, cattolicesimo ufficiale o come volete chiamarlo. In ogni caso, vuol dire violentare la natura delle cose.

»Dovete diffondere dappertutto una vera mentalità laicale , che deve condurre a tre conclusioni: a essere sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità; a essere sufficientemente cristiani da rispettare i fratelli nella fede che propongono – nelle materie opinabili – soluzioni diverse da quelle che sostiene ciascuno di noi; e a essere sufficientemente cattolici da non servirsi della Chiesa, nostra Madre, immischiandola in partigianerie umane» (7) .

Credo che nella maggior parte dei lavori realizzati in occasione del Simposio su «Poetica e Cristianesimo» raccolti in queste pagine, palpiti in qualche modo lo spirito di queste parole di San Josemaría. Gli studi sulla convergenza tra cultura artistica ed espressioni della fede possono essere realizzati – e di fatto così è stato – in molti modi e da molteplici prospettive accademiche e condizionamenti storici. Possono anche avere un denominatore comune. Nel caso dei testi di questo volume ritengo che questo denominatore agglutini la creatività poetica secondo lo spirito cristiano che ho appena menzionato.

Juan José García-Noblejas
Roma, 3 giugno 2004

1 George Steiner , Gramáticas de la creación , Siruela, Madrid 2001, pp.15-17 .

2 Ibid. pp.341-342.

3 Ibid., p.342.

4 Charles Taylor , «A Place for Transcendence?», in R. Schwartz (ed.), Transcendence. Philosophy, Literature and Theology. Approach the Beyond, Routledge, NY 2004, pp. 1-12.

5 Ibid ., p. 8.

6 Ibid ., p. 10.

7 Josemaría Escrivá , La Chiesa Nostra Madre , Ares, Milano 1993, nn.54-55.

 

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